venerdì 31 luglio 2015

"Un mare di ... cenci" Un racconto di Gloria Ricci, figlia di un cernitore di Prato, morto per mesotelioma

Cenci! Stracci! Cenci! Stracci!
Un mare di cenci e…… lei, la città di Prato, antica e moderna insieme, navigava , caravella sicura, in quella distesa variopinta.
I cenci arrivavano da ogni dove,da Paesi lontani geograficamente e culturalmente: da tutta l’Europa, dalla lontana e fredda Russia, dalla progredita America, ma anche dall’Australia e dalla nera Africa.
Un’esplosione di stracci!
Quintali di cenci|
Vagoni di stracci!
E Prato, divenuta facoltà e magistero della cultura dello straccio, si faceva grande grazie alla maestria e forse anche alla magia di loro,dei “professori”, seduti, culo per terra, a classificare i cenci: i cenciaioli!
Nascevano cenciaioli!
Trascorrevano lunghe giornate di lavoro seduti, in freddi stanzoni, con le gambe incrociate a scegliere i cenci.
Quei cenci volavano via dalle loro forti mani, attratti e sospinti da un fluido magico, poi atterravano,come ballerini danzanti, sul mucchio a cui erano destinati.
E là, sul grigio ed inanimato cemento, si componevano tavolozze di colori create da pittori senza pennello.
I cenciaioli erano uomini ai quali il mondo pareva un arcano firmamento di cenci in attesa del sapiente e magico prodigio delle loro abili mani:
E’ lana!
E’ seta!
E’ canapa!
E’ cotone!
E via! Continua la danza!
Erano mani infallibili, capaci di sentire, al semplice tocco delle dita, la qualità del tessuto e di selezionarlo con una rapidità incredibile.
E fra tutte quelle mani rivedo il mio babbo.
Nato cenciaiolo.
Vissuto in mezzo ai cenci.
Morto a causa dei cenci.
Le sue mani erano forti, capaci di sfoderare e cernere per ore ed ore, sette giorni alla settimana, con il desiderio di costruirsi una casa, di far studiare la figlia,di comprarsi un’utilitaria per andare a far merenda in Galceti o per trascorrere, in agosto, qualche giorno a Viareggio.
Eppure erano anche mani delicate,capaci di accarezzarmi, di stringermi, di guidarmi, di consolarmi………
Mani che ora non ci sono più, ma che insieme a tante altre, hanno fatto grande la nostra Prato.
Mani e schiene di uomini che sorreggono Prato assieme al peso di tutte quelle pagine che nemmeno li ricordano.


mercoledì 29 luglio 2015

Dal paziente al "crowdhero": perché la medicina narrativa può diventare una crowdmedicine

Scrive Eric Topol: “With approximately two billion users worldwide, smartphones are the most rapidly adopted technology in the history of man […] We are about to see a medical revolution with little mobile devices”

Un modello interpretativo derivato dal marketing del largo consumo ci aiuta a cogliere l’impatto di questa  rivoluzione. Come mostra il libro Winning the Zero Moment of Truth
 di Jim Lecinski, manager di Google, grazie al passaparola online, sempre di più l’esperienza precede il consumo.  Attraverso i racconti e i vissuti degli amici virtuali nei forum, su Facebook, nei blog, conosco il prodotto/servizio, ne apprezzo le qualità, ne provo le emozioni, prima ancora di acquistarlo. Nel modello classico, l’esperienza segue l’acquisto, nel nuovo modello invece avviene un trasferimento di esperienza virtuale, che precede l’acquisto e convalida la scelta (il momento zero della verità).
Al centro di questo processo c’è il passaparola, cioè la condivisione di storie che avviene da persona a persona, attraverso canali informali di comunicazione. Orale e sfuggente in passato, oggi il passaparola,  amplificato dalle tecnologie digitali,  non vive più negli interstizi della comunicazione sociale, è accessibile a tutti con un click.
Questo nuovo spazio sociale di conversazione ha consentito la nascita di una nuova figura di consumatore, cittadino, paziente che potremmo definire come un crowdhero.
Il crowdhero è il soggetto che diventa protagonista attraverso la costruzione collettiva in rete delle sue esperienze e delle sue scelte di consumo, di relazione, di salute. Progressivamente diminuisce l’importanza delle agenzie di mediazione sociale tradizionali tra il soggetto e i suoi mondi di riferimento, che siano amicali, professionali, politici, sanitari. Le ricerche su Google e le reti virtuali, dagli amici su Facebook, ai membri delle comunità online, aprono al soggetto, di volta in volta, nuovi percorsi.
Al capitale economico, sociale e culturale, il crowdhero associa il capitale digitale, un capitale nuovo, spesso ancora sottovalutato.
Il capitale digitale è l’insieme delle autorappresentazioni, delle conoscenze, degli strumenti, delle esperienze, delle emozioni e delle relazioni che i soggetti costruiscono attraverso i canali digitali, dalle news, ai social network, alle app. E’ un capitale che il soggetto percepisce come risorsa per esplorare e costruire i propri mondi.
Il capitale digitale non deriva meccanicamente dal capitale economico, culturale o sociale. Vive e si alimenta grazie ai processi di disintermediazione rispetto alle agenzie di socializzazione e inculturazione tradizionali o ai percorsi socio-anagrafici.
Il capitale digitale nasce da un mix di fonti diverse per ognuno e costituisce una risorsa nuova per il soggetto e per i gruppi. L’impatto di questo capitale è ancora tutto da indagare, ma sicuramente sta progressivamente cambiando immaginario, comportamenti, accesso ai ruoli sociali, professionali e politici. Dobbiamo allora chiederci: come cambiano i processi sociali di simbolizzazione della malattia e di legittimazione della cura, se il paziente diventa un crowdhero e dispone di un capitale digitaleLe critiche alla rivoluzione digitale spesso si basano su un assunto, non sempre dichiarato:  il sapere non medico, l’esperienza collettiva, il vissuto del paziente sono prevalentemente fuorvianti e ostacolano la pratica medica. La calligrafia incomprensibile e le difficoltà di accesso alla cartella clinica sono i simboli di questo assunto, molto più diffuso di quanto lo slogan del ‘paziente al centro’ non faccia credere.

Quale arroccamento disciplinare ed elitario può far credere ai medici che il sapere biomedico esaurisca le possibilità di conoscenza delle patologie e dell’effetto delle terapie? In un testo degli anni ’90, ancora oggi ricco di stimoli, l’antropologo Byron Good racconta come il percorso per diventare medico riduca il potenziale di osservazione e interpretazione dei giovani medici. Da un lato questo è ovvio, occorre applicare uno sguardo, un limite e un orizzonte per conoscere ed agire. Quello che è meno ovvio è che questi sguardi/limite possano essere considerati “naturali” e “immutabili”.
Alla naturalizzazione dello sguardo e quindi delle categorie e dei metodi, spesso la medicina ha unito la naturalizzazione del paziente in un corpo privo di biografia, inerte e quasi-morto, animato dall’unica vita interessante per il medico, quella del progredire o regredire della malattia. In questa ‘autopsia di un vivente’, la persona nel corpo diventa allora disturbo, noise, interferenza.
Anche su questo l’impatto della rivoluzione digitale è dirompente. Il capitale digitale, nella sua varietà di fonti e intrecci, allarga l’esperienza del soggetto rispetto a se stesso, al suo corpo, alle cure, secondo modalità ancora poco esplorate. Il capitale digitale cambia radicalmente il viaggio con la malattia.
Nel microcosmo digitale si vivono esperienze diverse della malattia che interagiscono con l’esperienza personale e l’esperienza vissuta nello spazio familiare, sociale e medico.

Tutto questo cambia la relazione con il medico. Il paziente non aspetta più il verdetto medico, è diventato un crowdhero, vuole appropriarsi del suo percorso, si mobilita attraverso i social network per confermare la diagnosi o per individuarla. Come cambia in questo quadro la medicina? Il capitale digitale ci stimola a rivisitare la classificazione tradizionale della malattia in disease, illness e sickness. Nel modello delle medical humanities: la disease è la malattia osservata e raccontata con il linguaggio e gli schemi interpretativi biomedici, l’illness è la malattia così com’è vissuta e raccontata dal paziente, la sickness è il ruolo sociale associato al malato, le rappresentazioni collettive della salute e della malattia, le gerarchie sociali nella classificazione dei corpi, delle malattie e dei malati, l’organizzazione sanitaria che riflette queste rappresentazioni. Il capitale digitale consente una produzione biomedica, sociale e simbolica dell’esperienza di malattia che ibrida disease, illness e sickness. Crea unacrowdmedicine, animata non da pazienti ma da crowdheroIl capitale digitale fa da mediatore strumentale, semiotico, relazionale ed emozionale tra il mondo del paziente e il mondo del medico. Cambiano i processi di simbolizzazione della malattia, prima oscillanti tra il mondo metaforico del paziente, spesso non detto, e il linguaggio del referto. Il digitale sta diventando un’agenzia di simbolizzazione tanto più efficace perché agganciata alla condivisione dell’esperienza. In alcuni esperimenti sul dolore, il neurofisiologo Fabrizio Benedetti mostra l’attivazione delle stesse aree del cervello nel caso di somministrazione del farmaco o di un placebo. Benedetti racconta la cura come un atto rituale terapeutico, in cui non si somministrano solo farmaci ma anche spazi, odori, colori, parole del medico, cioè stimoli sociali. 
Questi stimoli in passato erano costruiti e vissuti prevalentemente nel quadro della relazione medica. La disponibilità del capitale digitale, cambia la produzione degli stimoli sociali che entrano nel rituale dell’atto terapeutico. 
Alla parola medico-scientifica, si associa sempre di più la parola collettiva, i processi di simbolizzazione del male e dei suoi rimedi che si sviluppano nelle conversazioni sociali condivise online.
In questo quadro, diventa sempre più urgente per la medicina interrogarsi sui linguaggi della cura, sulle metafore in grado di accompagnare al meglio il percorso terapeutico, garantendone l’efficacia. Si tratta di capire qual è la relazione più adeguata “tra significante e significato”, tra “simbolo e cosa simbolizzata”, come già segnalava Lévi-Strauss nel saggio sull’efficacia simbolica.
I curanti dovranno sempre di più valorizzare le categorie e i metodi della medicina narrativa, acquisire sempre maggiori competenze semiotiche per co-costruire insieme al paziente/crowdhero una storia di cura, efficace per il paziente, e capace di aprire ai medici nuove prospettive sistemiche, ampliando il mondo/modo di vedere e raccontare il paziente e la malattia. 
La medicina narrativa come crowdmedicine può favorire una nuova  alleanza terapeutica che non pone problemi di tempi e costi, al contrario li migliora. Richiede piuttosto un cambiamento delle modalità di produzione del sapere e delle pratiche mediche. Un medico potrebbe mai sostenere che non ha tempo per guardare una tac o un’ecografia? Le storie devono guadagnare lo stesso peso gerarchico, perché possano effettivamente diventare uno strumento di  nuova crowdmedicine, capace di valorizzare il capitale digitale, salvandoci dai rischi della disintermediazione.
(tratto da: http://cristinacenci.nova100.ilsole24ore.com/2015/07/29/dal-paziente-al-crowdhero-perche-la-medicina-narrativa-puo-diventare-una-crowdmedicine/)

mercoledì 15 luglio 2015

"Ho usato l'umorismo per coibentare ed isolare l'amianto": un'intervista ad Alberto Prunetti, autore di "Amianto, una storia operaia"

In "Amianto, una storia operaia", Alberto Prunetti racconta la vita di suo padre. Renato, operaio trasfertista specializzato nella manutenzione di grandi impianti, accompagna sulla sua pelle l’Italia industriale del Novecento, fino ad essere consumato e ucciso dalla totale mancanza di sicurezza nei luoghi in cui lavora. Qui inizia la guerra di Alberto, nei tribunali e sulla carta, per ristabilire la verità e per restituire dignità ad un’intera generazione di lavoratori.
Amianto è un testo drammatico e paradossale: il lettore lo attraversa portando sulle labbra il sorriso della commedia, ma dentro piange perché pagina dopo pagina si consuma una tragedia. Perché hai scelto questo registro per affrontare una storia così dolorosa, biografica e autobiografica al tempo stesso?
La tragedia e la commedia, il riso e il pianto in Amianto camminano assieme. Necessariamente. Perché nelle subculture operaie il fango e il rame, la blasfemia e la speranza sono intrecciate l’una con l’altra. Il comico e il tragico, l’alto e il basso, le radici e le ali. Lo sterco e il sole, come sanno i contadini. La forza di Amianto sta in questa ambivalenza. Che, dal punto di vista della carpenteria del testo, utilizza l’umorismo come materiale isolante, come una coibentazione necessaria per maneggiare il calore eccessivo della drammaticità della vicenda. Per toccarla e raccontarla senza scottarsi. Come faceva Renato, il protagonista del mio libro, nelle acciaierie. Usava l’amianto per coibentare. E io ho usato l’umorismo per coibentare e isolare l’amianto.

In un certo senso, Amianto continua nella missione che ti sei dato: girare in lungo e in largo le aule dei tribunali per seguire i processi sui danni provocati ai lavoratori esposti a questo veleno. A me ricorda il dovere di testimonianza che incarnava Primo Levi nelle scuole, ma tu come vivi questa esperienza? E cosa ti spinge a continuarla, a dispetto della fatica che impone?
Il dovere di testimonianza lo sento. Ma ovviamente non c’è solo l’aula del tribunale. Ho seguito oltre al mio contenzioso quello di Casale Monferrato e il processo per le vittime dei cantieri Navali di Monfalcone, tutti esposti alla fibra bianca. Ma ora sono stanco dei tribunali. E’ più importante incontrare la gente fuori dalla cerimonia dell’istituzione, parlare con i vecchi operai e con gli studenti. Tra gli incontri più belli, ricordo quelli nelle scuole superiori. In genere seguo però le trasferte lavorative di mio padre, che avendo lavorato nei cantieri industriali più importanti e nocivi d’Italia, ha segnato la mappa dei luoghi più inquinati, dove oggi si registrano disastri ambientali ed eccessi di morbilità e di mortalità. Non è un caso se è proprio da questi luoghi (città-fabbriche, quartieri operai in dismissione come Bagnoli, centri sociali che hanno riconvertito capannoni industriali) che di solito ricevo inviti per presentazioni. Continuare a presentare il libro in questi posti è per me un modo di incrociare altre storie. In genere la mia storia in luoghi come Piombino o Bagnoli o Taranto non è straordinaria. La mia storia è ben conosciuta in quei quartieri, è la storia di tanti altri, di tutti quelli che avevano una tuta verde e blu nel fil di ferro dell’asciugatoio sul balcone e che affacciandosi vedevano una ciminiera. E’ la storia di un pezzo d’Italia, quel pezzo che ha fatto la storia del boom economico prima, poi ha vissuto la dismissione della grande industria e che oggi si ritrova col figlio all’università in una città lontana (nel mio caso era Siena), privo di certezze sul proprio futuro, e con il nonno o il babbo col fiato corto e qualche acciacco. E che non ci sta a farsi raccontare le favole sul miracolo economico e la crisi, due facce della stessa moneta. 

Dalle tue pagine emergono tre generazioni a confronto. I nonni, muratori e contadini della Maremma che con l’aratro sapevano lavorare la terra; i padri, operai della Solvay di Rosignano e dell’Italsider di Piombino che con la chiave inglese costruivano e riparavano qualsiasi cosa; i figli, che con una laurea in tasca non sono più in grado di sopravvivere. Cosa toccherà alla prossima generazione?
Credimi, me lo chiedo ogni giorno, ogni volta che vedo un bambino entrare in una scuola, ogni volta che incrocio una carrozzina. E non lo so. Non ho risposte. L’unica risposta che mi viene in mente è che bisogna riunire le fila, armare la speranza e l’intelligenza, rimettere assieme le generazioni senza abboccare all’amo della guerra tra poveri. Bisogna avere lungimiranza e partire dalle proprie storie, che fanno paura al potere più dei grandi quadri ideologici. Ma ci vuole anche la conoscenza critica per incorniciare la propria storia in un affresco che vada oltre il proprio particolare. Sogno un Quinto Stato che sappia mettere assieme i pezzi delle lotte dei nonni, dei padri e dei figli per regalare in eredità alle prossime generazioni una cassetta di attrezzi che loro sapranno usare in maniera intelligente: per continuare una lotta, per organizzare una comunità umana in maniera conviviale, senza nocività né autoritarismi. Questa è la meta, che rimane sullo sfondo. Ma servono armi critiche, intelligenza, storie. Come dicevano quei tali che apprezzo tanto, i Wu Ming, bisogna dissotterrare le storie come asce di guerra. E poi amano citare un filosofo italiano che diceva: ribellarsi è giusto. Ma bisogna saperlo fare bene. Quel “saperlo fare bene” a me ricorda il lavoro di mio padre. La ribellione non si fa coi proclami urlati ma con la precisione di un carpentiere di provincia che sa come mettere i pezzi assieme, tirando su un’intelaiatura, uno sfondo su cui appoggiarsi. Se vedi solo il primo pezzo che tieni in mano, non capisci, rimani disorientato. Ti fai ingannare dalla caccia al capro espiatorio, dalle finte del potere. Pensa al calcio. Un portiere non deve cadere nelle finte dell’antagonista. Deve capire cosa l’avversario ha in mente mentre finge di guardare l’angolino basso. Magari pensa al sette in alto. Noi dobbiamo fare lo stesso. Non dobbiamo credere alle facili spiegazioni. Ai trucchi dei pifferai. Anche di quelli che vedono la soluzione dei problemi dietro l’angolo. No, ci vuole un quadro, una cornice, un’intelaiatura che metta in comunicazione una generazione di dispossessati, di subalterni. Dobbiamo essere i padri. E i figli. E i nonni. Tutti assieme. Dobbiamo essere noi stessi la nuova generazione, dobbiamo partorire la comunità umana che si racconta contro le nocività della storia, costruendo un immaginario alternativo all’esistente. Perché questo immaginario diventi realtà. Con un progetto sullo sfondo. Amianto è un piccolo frammento di questo progetto, che va oltre la mia scrittura.

Per molti autori, la scrittura è solitudine. Dal Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio a Il taglio del bosco di Carlo Cassola, chi scrive spesso si sottrae alla realtà per poter esprimere ciò che ha dentro. Come si concilia tutto ciò con la diffusione di tecnologie – come il web e i social network – che invece spingono lo scrittore a vivere immerso nei commenti dei suoi lettori, a volte prima ancora che il suo libro sia completato? E tu, come vivi il tuo rapporto con la scrittura?
Per alcuni aspetti io sono un po’ un lupo solitario. Però non credo alla figura dello scrittore come individualità solitaria che si astrae e crea un atto idealista di bellezza. Al contrario. In fondo, se Fenoglio non avesse fatto la resistenza, se Levi non fosse stato in un campo di concentramento, se l’altro Levi non avesse conosciuto l’esperienza del confino, se Cassola non avesse conosciuto i minatori e i tagliaboschi maremmani facendo l’insegnante tra Volterra e Grosseto, come avrebbero potuto tutti costoro generare le loro storie, chiusi in una stanza? Detto questo, è vero che la tecnologia ci permette di entrare in relazione con lettori e situazioni molto distanti nello spazio e di interagire con comitati, con gruppi politici, con lettori e scrittori sparsi per ogni lato del pianeta. E’ innegabile che se una comunità virtuale diventa uno spazio conviviale, questo sia proficuo, sia per chi scrive che per chi legge. In questo senso, ben vengano social network come twitter. Ma credo che quando i rapporti si formano, per mantenerli sia poi importante incontrarsi di persona, superando la virtualità del mezzo di comunicazione. Quanto alla scrittura, è qualcosa che si fa nel corso d’opera, è un cantiere aperto, che vive di scambi coi lettori sui social network ma anche di lavoro, di riflessione coi compagni, di chiacchiere al bar coi vecchi da cui si impara tantissimo, di incontri nelle presentazioni. La scrittura si fa come il vino. Ci vuole il silenzio e l’isolamento della cantina, l’affinamento nella botte, ma tutto comincia con la tumultuosa fermentazione del mosto nel tino (e tra gli acini del mosto ci possono cadere anche i tweet di twitter), i violenti rimontaggi con le pompe che ossigenano e smuovono le fecce e la chiacchiera e il sudore e i canti dei vendemmiatori. Così si fa il vino buono e la scrittura si tinge di rosso.  
Alberto Prunetti (1973), traduttore e scrittore, ha pubblicato Potassa(Stampa Alternativa, 2003), Il fioraio di Perón (Stampa Alternativa, 2009) eAmianto, una storia operaia (Agenzia X, 2012; riedizione accresciuta Alegre, 2014). Con Amianto, scritto a partire dalle proprie memorie di figlio di un saldatore, ha vinto il premio Scrittore toscano dell’anno ed è stato finalista nel Premio Chianti Narrativa e nel Premio Pozzale Russo. Prunetti collabora con Letteraria, Repubblica Firenze e Il Manifesto ed è redattore di Carmilla, la rivista diretta da Valerio Evangelisti. Ha collaborato all'antologia di racconti sull'amianto e sulla vita operaia "Nessuno ci ridurrà al silenzio" curata da Maurizio de Giovanni , edita da Cento Autori (2015) e pubblicata dal Centro Documentazione Amianto e Malattie Amianto Correlate "Marco Vettori" con il quale collabora frequentemente. Al momento sta lavorando a una trilogia che ha definito “working class” con cui si propone di investigare il mondo del lavoro. "Amianto" è il primo episodio della trilogia.

giovedì 2 luglio 2015

Su www.mangialibri.com una recensione di Carla Colledan della nostra antologia "Nessuno ci ridurrà al silenzio"

NESSUNO CI RIDURRÀ AL SILENZIO

Articolo di: 
Bernardini fa una vita sana e regolare: ma improvvisamente un ospite tanto inatteso quanto terribile si presenta in quella vita sana e regolare. Mesotelioma. E Bernardini, operaio alla Debelli & Figli, non ha più niente da perdere… VD e GD, dirigenti dell’Ufficio Relazioni Esterne, hanno delle grosse divergenze di vedute su come gestire le notizie relative al processo in corso che vede imputato il Cantiere Navale, quello che ha dato lavoro a migliaia di persone fino a farle ammalare e morire di mesotelioma… Avere 14 anni e vedere la madre consumarsi di dolore non è facile. Anche a lui manca suo padre, ma a 14 anni il desiderio di vivere ha sempre la meglio sul dolore, e infine ti spinge a lottare per la verità... Gente impazzita, vendette non consumate, perché non c’è vendetta che tenga davanti ad un assassino subdolo e invisibile come l’amianto; ma se l’amianto è l’arma qualcuno la impugna, e qualcuno dovrà pagare…

Una antologia cattiva: racconti che si differenziano solo per lo stile degli autori - ognuno col suo modo di raccontare storie - ma non per il tema: queste sono storie in cui la realtà si mescola alla fantasia e la fantasia purtroppo è poca. Nata per volontà della Fondazione Onlus “Attilia Pofferi” e del Centro Documentazione sull’amianto e Malattie Amianto Correlate “Marco Vettori”, ha lo scopo di raccogliere fondi per promuovere la ricerca e soprattutto sensibilizzare l’opinione pubblica su un problema relativamente sconosciuto. Uno di quei problemi che hanno posto migliaia di famiglie davanti a un tremendo bivio: lavorare con la possibilità di ammalarsi o morire di non lavoro. Una tragedia sotterranea che ancora oggi nonostante i maxi-processi è poco discussa dai media. Ogni racconto, ogni intervista è un pugno nello stomaco, e il mesotelioma – tumore del polmone praticamente incurabile legato alle fibre di amianto, una polvere bianca impalpabile e implacabile - continua a uccidere come le mine nascoste negli ex campi di battaglia in giro per il mondo. Un libro importante per capire, conoscere e rendere omaggio e giustizia alle migliaia di morti sconosciuti e misconosciuti anche dalle autorità competenti.


- See more at: http://www.mangialibri.com/libri/nessuno-ci-ridurr%C3%A0-al-silenzio#sthash.sxSJCQaW.0bK66t4Q.dpuf

Nessuno ci ridurrà al silenzio: recensione di Annamaria Torroncelli

Assaggio n. 12 : 
NESSUNO CI RIDURRÀ AL SILENZIO, A CURA DI MAURIZIO DE GIOVANNI, edizioni  CENTO AUTORI, 2015
11/05/2015, 13:38

 “Il cantiere è come un buon papà” dicevano le maestre. Il mio papà, invece, quando ritornava dal lavoro  luccicava come un re. Una polvere luminosa gli ricopriva la tuta, il viso e i capelli.
(M. Carlotto)
Aspetto, perché lo so che quello che è giusto è che sia la polvere a unirci. Perché mentre la guardavo, incorniciata dal sole del tramonto, era così bella che anche la nuvola bianca che veniva dalla tuta sembrava farle da velo da sposa. E magari mentre la guardavo quella stessa polvere che entrava in lei è entrata anche in me, un respiro nel respiro.
(M. de Giovanni)
Credo che non dimenticherò mai le ultime parole di Alba sulla soglia di casa: “ La mia è stata una bella storia, nonostante la morte, nonostante tutto quello che gli altri ci hanno fatto. Non ci hanno tolto la dignità, né la voglia di vivere, né la fede. Siamo solo indignati, non rabbiosi. La rabbia uccide i sentimenti.”
(A.Ferracuti)
Michele ha quattordici anni e un nuovo scopo nella vita: giustizia.
E ora più che mai brucia d’amore e di rabbia.
(L. Ghinelli)
I bambini non dovrebbero mai vedere un padre piangere, si creano piccole ferite, si fanno domande impaurite sul domani che li attende, qualcuno cova rabbia come la cenere sotto la brace.
(F. Pagliai)
Di notte siamo tutti più deboli. I rimpianti, i ricordi, i rimorsi, la paura per il futuro, con il buio triplicano d’intensità. La luce li scaccia via, o sembra attenuarne la forza. Ma nella solitudine dell’oscurità non c’è nulla in grado di fermarli. Ti si schiantano addosso come una macchina fuori controllo, e tu lì, piantato in mezzo alla strada, impossibilitato a muovere un muscolo.
(P. Pulixi)

Raccontare il vero con fantasia perché la Storia si impara meglio attraverso le storie.
Non solo ponderose documentazioni d’archivio, resoconti giudiziari e fredde tabelle statistiche, ma anche, e soprattutto, racconti di testimoni reali o di quelli che reali potevano essere.
Questo il
 fil rouge di questo libro.
La sofferenza, le ingiustizie scorrono con impeto silenzioso nella vita di tutti i giorni: dare loro voce è compito ed obbligo della società civile, e ogni mezzo utile al raggiungimento dello scopo è benvenuto.
Sulla tragedia dell’amianto tanto si è scritto e tanto si è parlato, ma ancora molto c’è da fare nel campo della sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
La Fondazione ONLUS Attilia Pofferi  e il Centro Documentazione sull’Amianto e sulle Malattie Amianto Correlate Marco Vettori hanno voluto dare il loro contributo pubblicando questa raccolta di undici racconti inediti firmati da autori come
 Berselli, Carlotto, Ferracuti, Ghinelli, Magi, Pagliai, Prunetti, Pulixi, Rinaldi, Rossi e lo stesso de Giovanni, curatore del’opera, e destinando i proventi delle vendite alla ricerca sul tema.
Si racconta di famiglie distrutte dal dolore e dalle difficoltà economiche. E soffocate da un’infinita catena di lutti.
Leggendo, lo strazio di quelle morti diventerà il nostro strazio, e alimenterà quella rabbia, che è lucidità civile di chi, superstite, raccoglie il testimone di chi non è più tra noi. 



Annamaria Torroncelli