mercoledì 29 aprile 2015

MY DEVASTATING EXPERIENCE OF MESOTHELIOMA


By Chris Knighton

Fourteen years ago, my husband Mick and I had just enjoyed two weeks of sand, sea and sun in Corfu and didn’t have a care in the world except when we would next get back to Greece. Little did we know that just a few weeks later, our world would collapse.
On return from holiday Mick had been feeling unwell with a chest infection. When it didn’t go away and he was finding it hard to breathe, we went to A&E. A sympathetic doctor suggested he had an X-ray “just to make sure”.
The X-ray showed Mick’s lung was totally obliterated. We didn’t have time to think about what it was as Mick was immediately taken to have two and a half litres of fluid drained from his lung. This gruelling process was repeated several times over the next few weeks.
We never really discussed what was happening and were confident the doctors would get to the root of the problem. On Wednesday, 26 July 2000, we arrived at North Tyneside Hospital for test results.
It is a date I will never forget.
We knew immediately that the news was bad, but when the doctor said Mick had the asbestos-related cancer mesothelioma we just looked at each other.
Mesothelioma? We’d never heard of it. Asbestos-related? Mick had never worked in heavy industry. We thought that there must be a mistake.
The doctor confirmed the diagnosis, and the news got worse. For mesothelioma, there was no treatment, no cure and no hope. Mick had just six months to live. Stunned we walked out of the hospital with our arms around each other. It was a beautiful July day, the sun was shining and we found ourselves at the coast.
We sat holding hands looking out to sea in total shock. We were soul mates, and always had been since we first got together – how could we possibly cope with life without each other? My heart was broken.
Mick KnightonI’ve since found out that, like many people, Mick developed mesothelioma after being innocently exposed to asbestos whilst serving his country in the Navy.
Many more still have developed the devastating cancer after coming across asbestos working as builders, as plumbers, in factories, in shipyards, or even just by washing the clothes of someone who worked in those trades.
It is a cruel disease that takes innocent individuals, often with devastating speed. On 19 March 2001, my beloved Mick died, in my arms, just seven months after his diagnosis. Few people with mesothelioma survive much longer.
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martedì 28 aprile 2015

AMIANTO, L'ASSASSINO DI SOGNI

Una bellissima testimonianza tratta da ww.asbestosdiseaseawareness.org/archives/32794.

For me, tomorrow is very personal. Thirty years ago, my loving husband, Alan, lifted my wedding veil over my eyes and embraced me forever. Unfortunately, forever came to an end too quickly. Mesothelioma stole my best friend, and I desperately want him back. Gone forever are his smiles, his “I love yous,” and the precious family time we would have had together. Memories of our love are eternally etched across my heart, but now, only the sounds of silence echo around me. Ironically, our anniversary and Workers’ Memorial Day share the same day. Alan had both occupational and environmental asbestos exposure, and he paid the ultimate price for his job: his life.
It has been 12 years since I heard the dreaded word – me·so·the·li·o·ma – which changed our lives forever.  This preventable asbestos-caused cancer not only claimed Alan’s life, but shattered our family.  Our inforgraphic shows the staggering facts, “Asbestos: “Legal and Lethal in the USA.” Learn from our family and the the hundreds of thousands of others, for now, prevention is the only cure.
For those of us who have lost a loved one to asbestos disease, this is an important time of remembrance. Join me on Tuesday, April 28th, for International Workers’ Memorial Day, as I light a candle for Alan and for the countless others who have lost their lives from an occupational diseases and workplace accidents.
Alan, I will love you forever.
Shattered 
Linda

Per me, domani è una ricorrenza molto personale. Trenta anni fa, il mio amato ​​marito  Alan, sollevò il mio velo da sposa e mi abbracciò dicendo "per sempre". Purtroppo, quel "per sempre" si è concluso troppo rapidamente. Il mesotelioma ha rubato il mio migliore amico, e ho una disperata voglia di riaverlo indietro. Se ne sono andati per sempre i suoi sorrisi, il suo "Y love yous", e il prezioso tempo che avremmo condiviso. I ricordi del nostro amore sono eternamente impressi nel mio cuore, ma ora, solo i suoni del silenzio mi echeggiano intorno. Ironia della sorte, il nostro anniversario e la Giornata dedicata alle vittime dell'amianto cadono lo stesso giorno. Alan è stato esposto all'amianto sia nell'ambiente di lavoro, sia nell'ambiente di vita, e ha pagato il prezzo più alto per il suo lavoro: la vita.
E' stato 12 anni fa che per la prima volta ho sentito la temuta parola - mesotelioma - che ha cambiato per sempre le nostre vite. Questo cancro causato dall'amianto, non ha solo fermato la vita di Alan, ma ha mandato in frantumi la nostra famiglia. La nostra infografica* "Amianto: legale e letale negli Stati Uniti" mostra fatti impressionanti, ed insegna alla nostra famiglia ed a centinaia di migliaia di altre che, per ora, la prevenzione è l'unica cura.
Per quelli di noi che hanno perso una persona cara per malattie da amianto, questo è un giorno importante da ricordare. Unitevi a me Martedì 28 aprile per la Giornata Internazionale delle Vittime dell'amianto, e, come io faccio per Alan, accendete una candela per gli innumerevoli altri che hanno perso la vita per malattie professionali e per infortuni sul lavoro.

Alan, ti amerò per sempre.
Linda (distrutta)
* fa riferimento ad uno schema allegato all'articolo e non presente qui, che riporta i terribili dati della mortalità per malattie professionali e per amianto negli USA


lunedì 27 aprile 2015

LAVORO E CONDIZIONE OPERAIA

“Mi considerano pazzo perché non voglio vendere i miei giorni in cambio di oro. E io li giudico pazzi perché pensano che i miei giorni abbiano un prezzo.”
KHALIL GIBRAN

Certamente il lavoro produce meraviglie per i ricchi, ma produce lo spogliamento dell'operaio. Produce palazzi, ma caverne per l'operaio. Produce bellezza, ma deformità per l'operaio. Esso sostituisce il lavoro con le macchine, ma respinge una parte dei lavoratori ad un lavoro barbarico, e riduce a macchine l'altra parte. Produce spiritualità, e produce l'imbecillità, il cretinismo dell'operaio.
KARL MARX

L'etica del lavoro è l'etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi.
BERTRAND RUSSELL

C'è la diffusa tendenza da parte delle imprese, a considerarti un beneficato, per la sola ragione che pagano il tuo lavoro.
ENZO BIAGI

 “Molto male è venuto dalle fabbriche, e nelle fabbriche bisogna correggerlo. È difficile, forse non è impossibile. Bisognerebbe anzitutto che gli specialisti, gli ingegneri e gli altri fossero sufficientemente preoccupati non solo di costruire oggetti, ma di non distruggere uomini. Non di renderli docili, e neppure felici, ma solo di non costringere nessuno di loro ad avvilirsi”. 
SIMONE WEIL

“Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati”
PABLO NERUDA

“… noi la condizione operaia non la vediamo proprio, nelle fabbriche non entriamo più. Sono piuttosto gli operai ad uscirne: vuoi perché cala drammaticamente l’occupazione, togliendo a un’intera generazione il fondamento della cittadinanza repubblicana, vuoi perché sono costretti, per esempio, a salire sul silo dell’impianto Alcoa di Portovesme, per richiamare l’attenzione di un’opinione pubblica distratta, troppo distratta, colpevolmente distratta; vuoi, infine, perché al lavoro di milioni di immigrati non riconosciamo alcun diritto di esprimersi politicamente.
Vaste zone di invisibilità circondano infatti la regione più fortunata (e più ristretta) sulla quale si accendono le luci dei media. Per spostare qualche riflettore occorrono spesso gesti eclatanti. Gesti particolari, eccezionali, attraverso i quali si mette in gioco nulla meno della totalità della propria esistenza. Si sospende la propria vita sulla ringhiera di una torre, a decine di metri di altezza, o ci si dà addirittura fuoco, per bruciare la propria disperazione. Chi conosce la logica e le sue determinazioni non può non notare il terribile corto circuito che così si produce: nello spazio pubblico si fa sempre più fatica a rispettare la funzione della rappresentanza, di modo che la parte viene spinta con brutalità a identificarsi da sola con il tutto, a coincidere immediatamente con l’universale, senza la mediazione del generale, senza il riconoscimento e la valorizzazione di una comune appartenenza.
Ma questi ragionamenti dialettici non si capiscono più. Diciamo allora così: nessuno entra più nello spazio pubblico in virtù di una storia collettiva, ma solo in forza di una storia individuale. La prima richiede una risposta politica, la seconda riceve per lo più una risposta morale. Umana comprensione, accompagnata da un brivido estetico di terrore o di pietà, ma poco altro.”
(“La Condizione Operaia”  L’Unità, 16 settembre 2012)

Appello ai candidati alle elezioni regionali Toscana 2015 in occasione della Giornata Mondiale per le Vittime dell'Amianto (28 Aprile)

APPELLO AI CANDIDATI PISTOIESI ALLE ELEZIONI PER IL CONSIGLIO REGIONALE DELLA TOSCANA

Dieci anni fa (il 28 gennaio 2005), a Porto Alegre, in Brasile, nell’ambito del Forum Mondiale sull’amianto, fu proposto dall’ABREA (Associazione Brasiliana degli Esposti all’Amianto) di definire una giornata mondiale nella quale richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sui gravissimi danni alla salute che l’impiego dell’amianto ha prodotto e, purtroppo, continuerà ancora a produrre per molti anni.
All’unanimità il forum mondiale decise di destinare a questa sensibilizzazione la data del 28 aprile di ogni anno e di invitare tutte le associazioni, i movimenti, le istituzioni ed i sindacati a far propria questa ricorrenza, ognuno con la propria sensibilità ed attraverso apposite iniziative.
Considerato che quest’anno ricorre il decennale di questa importante ricorrenza, e che ciò accade in coincidenza con la campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio Regionale della Toscana, invitiamo i candidati pistoiesi a promuovere un’iniziativa per quella data (28 aprile 2015). Sarebbe sufficiente anche un gesto/appuntamento simbolico, ma di certo significativo per Pistoia che – a causa dell’amianto killer – ha pianto decine e decine di morti per mesotelioma e per altri tumori amianto correlati e altri ne piangerà nel prossimo decennio.
Nonostante le numerose ricerche, a tutt’oggi è molto difficile quantificare il numero delle morti causate dall’amianto nel mondo. In ogni caso, di certo, l’ordine di grandezza può considerarsi più vicino ai milioni che alle centinaia di migliaia. Ed ancora non è finita, visto che esistono ancora luoghi del mondo dove, incredibile ma vero, l’amianto viene ancora prodotto, impiegato e manipolato.


Un omaggio di Eugenia "Lalla" Calderoni alla nostra antologia

Nessuno ci ridurrà al silenzio

 Le nostre voci più forti
del rumore delle nostre fabbriche,
le nostre voci vengono dal cuore,
dall’amore per la vita.
Il nostro grido di protesta
per un mondo
che non ci ama,
che non ci protegge,
che non ci aiuta,
romperà gli spazi muti della sera
e il gelo dell’indifferenza
che ci circonda.
Le nostre voci
un coro, oltre l’orizzonte.
Non si arrende il nostro spirito,
pugno di luce sul nostro corpo
 sempre più stanco,
sulle cicatrici sulla pelle e sul cuore.
Chiediamo aiuto alle parole
perché il male non scavi il suo nido
e nasca nel segreto
come un figlio non voluto.
La notte allunga ancora
le nostre voci di speranza.
Lingue di fantasmi
racconteranno il respiro dell’odio sulla pelle
per l’egoismo e l’ingiustizia.
Piove sull’amianto del capannone abbandonato,
sono le nostre lacrime ma……


 nessuno ci ridurrà al silenzio!

(Eugenia Calderoni, 2014)

Un racconto di Anna Maria Virgili, presidente del Comitato Esposti Amianto Lazio.

MIO PADRE COIBENTISTA 
Lavoravi l'amianto a mani nude 
tornavi la sera 
polvere nei capelli 
mi accarezzavi bambina 
le mani bollose 
respiravo il tuo affetto
e le fibre assassine 
ci univano nella sorte maligna. 
Tu forte e onesto 
spezzato da un lavoro malsano 
piegato al profitto di pochi. 
Cercavi uno spiraglio di quiete
nell'attesa della calma infinita. 
Mute parole in bilico 
tra pianto e silenzio, 
i tuoi occhi, i miei, 
sibilo, fame d'aria, 
sguardo assente 
cuore-polmone 
poi più nulla... 

IL MALE DENTRO 
Mio padre Vittorio ha lavorato come coibentista per la Capamianto Spa dal ’36 al ’62. Poi fino al ’66 con la ditta Dufour & Piacenza (Dufour, cugini di quelli che facevano le caramelle) e in seguito con la ditta Salvi.
Ha rivestito con l’amianto caldaie, tubi, celle frigorifere, motori, paratie, condutture, turbine. In ambienti di lavoro notevolmente polverosi, dove non c’erano aspiratori, senza uso di mascherine. Spesso al chiuso, in locali angusti e mal areati, in posizioni particolarmente scomode. I materiali usati (pannelli, trecce, coppelle, cartoni, materassini) oltre alla polvere grezza, erano tutti a base di amianto. 
Lavorava la polvere di amianto allo stato grezzo e la impastava con il cemento per riempire le parti scoperte dei rivestimenti. Tracciava anche tessuti e cartoni in amianto che, sagomati e tagliati, servivano per coibentare strutture diverse. Ho visto le sue mani piene di piaghe, bolle e ferite. La sera tornava a casa con le mani fasciate e il giorno dopo doveva tornare al lavoro. La polverosità negli ambienti di lavoro era assai elevata così lui e i suoi compagni si coprivano naso e bocca con un fazzoletto come fossero banditi pronti a compiere una rapina, loro che sono stati i martiri del lavoro. 
Erano gli anni a cavallo tra il ’50 e il ’60. Si guardava alla capacità di lavoro piuttosto che alla lotta contro la nocività del lavoro, per nulla all’integrità della salute degli operai che per un salario da sopravvivenza lavoravano amianto. Le fibrille che respiravano si conficcavano nei polmoni e più ne respiravi, più si estendeva l’asbestosi. I polmoni cicatrizzati sempre più piccoli. Fibrosi interstiziale acuta. Enfisema. Tosse. Dispnea. Astenia. Arrivava la malattia e non si sapeva perché. Si sospettava che quella polvere potesse far male. Forse faceva morire? 
“Ti ù sè… l’è mortu ù Ciuìn” - avevo sentito dire da mio cugino Loris, una sera che era venuto a trovare papà. Il loro compagno di lavoro era caduto a terra all’improvviso, scendendo dal tram. Solo dopo l’autopsia scoprirono che aveva l’asbestosi. Si acquisiva così, attraverso i decessi dei compagni di lavoro, la consapevolezza della pericolosità dell’amianto. 
Papà, suo fratello Rino e mio cugino Lòris, figlio di un altro fratello, facevano i coibentisti, lo stesso mestiere di Ciuìn, nei cantieri navali di Genova. Rino e Lòris sono morti per il mesotelioma ai polmoni e papà per l’asbestosi. Nessun coibentista della Capamianto Spa si è salvato. Negli anni ’60 un gruppo di ricercatori dell’Ospedale San Martino di Genova (Fontana e altri) iniziò i primi studi sui “coibentisti”, i più esposti alla polvere di amianto che non faceva solo tossire e sputare l’anima, faceva morire. Quei medici hanno avuto in cura papà per tanto tempo. Dicevano che era pieno di amianto dalla testa ai piedi. Diagnosi: “Asbestosi polmonare complicata da enfisema bolloso e conseguente grave insufficienza respiratoria”. 
Mio padre faceva quasi sempre il cottimo e spesso veniva mandato in trasferta. Là in quei cantieri, in quelle aree industriali ancora da bonificare, dove ancora ci si ammala. Là dove c’erano centrali elettriche, cantieri navali, siti industriali, a Genova, La Spezia, Taranto, Monfalcone, Trieste, Livorno, Massa Carrara, Civitavecchia, Napoli-Bagnoli, Palermo, Turbigo, Spinetta Marengo, Riva Trigoso, Chivasso e tanti, tanti altri luoghi che la memoria ha dimenticato ma che riaffiorano ogni qualvolta viene menzionato un sito contaminato da amianto. In tutti quei luoghi di dolore legati alla presenza di amianto, mio padre c’è stato. 
Mia madre spesso lo seguiva e anch’io quando ero bambina o durante i periodi di vacanza scolastica. Durante i lavori per la costruzione delle navi gemelle Raffaello e Michelangelo, nei cantieri navali di Genova e poi di Trieste ebbe le crisi peggiori. Faceva sempre più fatica a respirare, non riusciva a stare in piedi e da allora fu un alternarsi tra ricoveri in ospedale e rientro al lavoro. Dopo un lungo iter fu riconosciuta dall’Inail la malattia professionale al 100%. Ma fu una via crucis, ci vollero anni. Ricordo le mattine quando si alzava all’alba, tossendo e scatarrando, con quel sibilo terribile che è la mancanza di aria nei polmoni. Dispnea, che in greco, vuol dire fame d’aria. Usciva col freddo. Non aveva la macchina, prendeva il tram. E aveva la febbre. 
La mutua copriva solo alcuni periodi di malattia e doveva rientrare al lavoro anche se stava molto male. La Capamianto Spa (Cape Asbestos Company,Ltd) era una multinazionale con sede legale a Londra, aveva fabbriche di amianto in Gran Bretagna, Spagna, Canada e miniere in SudAfrica. Fin dal 1893 la Cape Asbestos Company Ltd iniziò a sfruttare i giacimenti di crocidolite, la varietà più pericolosa dell’amianto, nei pressi di Prieska, al nord della Provincia del Capo (da cui ha preso il nome). L’amianto blu fu utilizzato massicciamente nell’industria navale ed in particolare, come riporta un listino del 1912 della stessa Capamianto Spa di Torino, dalle “Marine da Guerra e Mercantili dei principali Stati tra i quali primeggia la R. Marina Italiana”. Questa società ha estratto e lavorato amianto in Sud Africa per più di un secolo. Ha operato sotto il regime dell'apartheid sfruttando le maestranze a basso costo, tra cui donne e bambini. Fino al 1948 Cape PLC (“The Cape Asbestos Company Ltd”) ha estratto direttamente crocidolite e amosite nelle miniere di Prieska e Penge nel Northern Cape in Sud Africa e dal 1979 ha operato attraverso società interamente controllate. 
Non solo i minatori, ma anche coloro che vivevano attorno alle miniere, sono stati esposti ad elevatissimi livelli di amianto, a volte trenta volte il limite legale previsto in Gran Bretagna. Un medico di Prieska ha relazionato di aver diagnosticato 900 casi di mesotelioma, incluso il proprio figlio. Un ispettore della salute del governo britannico, il dottor Gerritt Schepers, ha riferito che “i bambini calpestavano l’ amosite che cadeva tutto il giorno a cascata sullo loro teste”. E che quei “bambini hanno avuto il massimo di esposizione all'amianto. L’esame ai raggi X ha rivelato asbestosi con cuore polmonare prima dei 12 anni ". In Italia la Capamianto Spa aveva una fabbrica di amianto a Torino e sedi nei cantieri navali di Taranto, La Spezia e Genova. E’ stato accertato che in tutti gli stabilimenti della società, gli operai lavoravano in condizioni di elevatissima esposizione all'amianto. L'incidenza delle malattie legate all'amianto (tra cui molte vittime la cui esposizione era puramente ambientale) è stata altissima con intere famiglie colpite dalla tragedia. Nel 1968 chiuse la principale fabbrica britannica a Barking, data l’alta incidenza di malattie da amianto, mentre l’attività di estrazione è andata avanti fino al 1979. Nel ’75 la Capamianto Spa in Italia dichiarò fallimento e anche questo fu un modo per evitare la richiesta di risarcimento da parte di milioni di famiglie di operai che si sono ammalati e sono morti. Purtroppo il lungo periodo di latenza delle malattie da asbesto non ha facilitato l’esercizio della giustizia che, se mai può ripagare stragi di tale portata, almeno allevia la tensione che sempre resta presente nell’anima di chi ha subìto un male che si poteva evitare. Nel 2006 la Cape ha creato un fondo amianto per risarcire i residenti del Regno Unito e solo in parte i minatori del SudAfrica che hanno presentato settemiladuecento domande. Perché la Cape PLC non ha istituito un fondo anche per risarcire le vittime italiane? E che cosa hanno fatto i governi per rendere questo possibile? La Cape PLC ("The Cape Asbestos Company Ltd", in Italia “Capamianto Spa”) è una multinazionale tuttora molto attiva nel campo dei rivestimenti, coibentazioni, verniciature, settore del gas, petrolchimico e nucleare, in Gran Bretagna, Europa, Asia, Africa, Medio-Oriente, Australia…..e in paesi dove l’amianto non è ancora stato vietato. In Gran Bretagna la Cape PLC è denominata "industrial killing machine”. Di quante vittime è responsabile questa multinazionale? Quanti familiari non hanno neppure potuto intentare un processo? Purtroppo, non è stato possibile alla mia famiglia e agli altri familiari dei lavoratori come lui, intentare una causa per il risarcimento del danno alla Società Capamianto perché i responsabili dell'azienda, compresi gli amministratori inglesi subentrati a meta' degli anni '60, risultavano ormai deceduti. Per quanto a mia conoscenza, nessun lavoratore italiano alle dipendenze della Capamianto Spa ha mai ottenuto un risarcimento del danno. Quando ero bambina, tornava dal cantiere, si chinava su di me, mi prendeva in braccio e mi faceva volare in aria più volte: “la mia buciacchin!” diceva - e io mi divertivo e tremavo per l’emozione. 
Mia madre ed io oggi abbiamo scoperto di avere entrambe le placche e gli ispessimenti pleurici per esposizione familiare all’amianto. Allora non sapevamo che i tanti momenti di affettuosità vissuti con mio padre sarebbero stati anche per noi causa di malattia che, sebbene di natura benigna è pur sempre un processo in evoluzione, sentinella di ben più gravi patologie. Una volta (avrò avuto dieci anni) chiesi a papà: “Cos’è l’amianto? Come è fatto?”. Alcun giorni dopo si presentò a casa con un pacco che posò sul tavolo della cucina. Tolse lo spago e cominciò ad aprirlo piano piano. C’erano vari pezzi di materiale che dispose in fila davanti ai miei occhi. “Ecco, questo è amianto!” mi disse. E aggiunse che l’aveva preso eccezionalmente in prestito dal magazzino. Poi iniziò a indicarmene i nomi. C’erano piccoli pezzi di crocidolite, il crisotilo e l’amosite, alcuni campioni di cartone e di corda, un pezzetto di tela grigiastra che sembrava sfaldarsi e alcuni minerali di diverso colore. Ne ero affascinata e pensai che mio padre facesse un lavoro davvero interessante. Feci l’atto di pendere in mano quello che mi sembrava il più bello, l’amianto blu e lui mi fermò di scatto: “Puoi guardare, ma questo qui non lo devi toccare!”. Così rimasi a guardare estasiata quel campionario di morte, a pochi centimetri dal naso. Poi papà raccolse quei pezzi uno ad uno, li ripose nella carta da pacchi e richiuse tutto con lo spago. Sul tavolo rimase della polvere che io mi premurai di pulire con lo straccetto di cucina. Ricordo quando un giorno arrivò a casa con il lavoro da fare… Erano materiali in amianto, cartoni pressati piuttosto spessi che dispose sul tavolo della cucina per essere tracciati e che doveva preparare per il mattino seguente. Li studiò a lungo, poi li tagliò in varie forme per essere sagomati. Quei pezzi si sfaldavano facilmente appena li muovevi e papà faceva molta attenzione nel maneggiarli. Le fibre che rilasciavano erano moltissime, chiaramente visibili sul tavolo e per terra. La cosa si ripetè per diverse settimane, poi non più. Qualche volta, con mia madre andavamo al cantiere “a prendere papà”. Ci si affacciava in un enorme magazzino e a fatica si riusciva a vedere in fondo. La polvere c’era e dava fastidio ma era considerata polvere e basta. 
Quella polvere bianca lo ricopriva completamente, dai capelli alle scarpe e il blu della tuta non si vedeva più, tanto che mia madre, che sapeva cucire, gliene aveva fatta una color cachi per non far notare la differenza. Mi chiedo quante tute avrà sbattuto, lavato e sciacquato mia madre. E quanta polvere abbiamo respirato tutti noi che vivevamo in una piccola casa dove la vita familiare era concentrata prevalentemente in cucina, unica stanza di casa riscaldata dalla stufa “economica” che andava a legna e più spesso a carbone. Vivevamo nelle case popolari di Molassana, un quartiere periferico della Val Bisagno, a Genova. Le case erano veri e propri casermoni quadrati dall’aspetto ordinario fatti costruire negli anni del primo dopoguerra. La casa era piccola e la cucina era il centro della vita familiare, essenziale ma molto luminosa. 
C’era un grande acquaio di marmo di Carrara di cui mia madre andava fiera ed era di marmo anche il piano del tavolo che stava al centro. In quella cucina, il sabato o la domenica si faceva il bagno. Mamma metteva a bollire un pentolone di acqua e la versava bollente in una grande tinozza di zinco che piazzava nel bel mezzo della stanza, dopo aver spostato il tavolo per fare spazio. Il vapore che si alzava ricopriva ogni cosa e non ci si vedeva più a pochi metri. Ma non c’era solo il vapore, c’era anche la polvere dell’amianto. Mamma abitualmente aiutava papà a lavargli la schiena. - Aveva le spine nella schiena, tuo padre, sai? Non aveva la schiena liscia, si sentivano come delle spine…le sentivo con le mani quando lo insaponavo . - Le spine? - - Sì, …forse perché usavano anche la lana di vetro oltre all’amianto… - Ma non si lavavano al cantiere? – - Ma no! Quando tornava era sempre pieno di polvere…ne aveva così tanta sulla tuta, sulle scarpe, nei capelli, perfino sulle ciglia e sui baffi… Era così stanco…tossiva e tirava sempre su a cercare l’aria, così lo aiutavo a spogliarsi in cucina… - Mamma, lavavi lui e tutto quello che aveva addosso!...- - Eh, sì! La tuta la buttavo a lavare nell’acquaio o la mettevo a bagno nel secchio, ma prima la sbattevo e c’era così tanta polvere in cucina che non si vedeva da qui a lì! - Non è stato facile neanche per te…- - Eh, so io quanto ho lavato…perfino di notte! La polvere usciva fuori dai calzini, dalle maglie, dalle mutande.… - - Non avete mai pensato, insieme, di cambiare vita? - Oh, sììì… se avesse fatto tredici al Totocalcio… sìììì !!! Ci giocava sempre …- - Ma no, intendo andare in un altro posto, fare altro - - Ma che dici? Era già tanto così! Ma che potevi fare? Credi che si potesse scegliere? Avevamo solo un pezzo di casa popolare in affitto… E papà era coibentista, uno con un mestiere! Certo, se penso ora a quanta polvere abbiamo respirato tutti… e a quanto ho lavato…. Ah, ne ho lavate di tute ma anche le federe, sempre a lavare federe a mano perché non c’era mica la lavatrice… - Le federe?... - - Sì, le lenzuola una volta a settimana, ma le federe le lavavo più spesso, come le tute, perché erano sempre piene di polvere, ci trovavo la polvere sopra tutte le mattine e c’era l’alone... sulla polvere ci si dormiva, alla fine! – Sono passati trentatré anni da quando mio padre se n’è andato per l’asbestosi. 
E’ molto presente nei miei pensieri per l’affetto che ci legava ma ancor più per la sofferenza di quella malattia e della sua storia legata all’amianto. Negli ultimi anni Vittorio passava la maggior parte della giornata a letto: bombola dell’ossigeno, pila di libri, giornali, radio, il catino in terra per i fazzoletti sporchi. Febbricola, tosse stizzosa, sibilo, crisi asfittiche, dispnee parossistiche. Fatica a stare in piedi, a camminare, sempre peggio. Devi stare attaccato all’ossigeno. Non c’era cura. I medici avevano previsto la fine imminente - “Sei mesi…” – avevano detto. Previsione che fu inspiegabilmente rimossa da me e da mia madre. Una frase tornata alla mente solo quando non sarebbe più stato necessario tenere il conto dei giorni per preoccuparci o per essere più presenti e affettuose o forse per vivere quotidianamente un maggiore sgomento, il senso dell’impotenza, l’attesa peggiore. Tante volte aveva implorato la fine di quella sofferenza, una richiesta di pietà rivolta al padreterno, alla madre Maria, a quella piccola, forte e pia donna di campagna che lo aveva partorito, vedi destino, in una stalla, tutta sola. L’andirivieni dall’ospedale degli ultimi anni, nonostante l’affanno per respirare, la sofferenza che lo accompagnava sempre e la debolezza fisica, che aveva piegato la sua forza innata, erano diventate una consuetudine che dava l’illusione di poter andare avanti così, per chissà quanto tempo ancora. La sua malattia è stata lunga. 
Lungo il periodo di latenza, lungo il processo di evoluzione di quel male dentro. L’amianto lo aveva respirato, mangiato, ne era intriso. Aveva le mani grandi, forti e nodose. Le unghie larghe e ricurve (lo chiamano ippocratismo) denunciavano l’intossicazione cronica. Quello che colpiva era la ridotta capacità respiratoria che lo costringeva a dipendere sempre dall’ossigeno. Mi tradiscono gli occhi che diventano rossi ma trattengono le lacrime. Mi ritornano alla mente le ultime parole dette da mio padre, quando non sapevo che sarebbe stato un addio: “Non piangere, ochi beli!”. Parole dette piano, in quel suo accento ferrarese, lo sguardo buono, rassegnato, i suoi occhi semichiusi e l’accenno appena di un sorriso. Parole sussurrate con affetto e la richiesta di un bacio in quella sua guancia scavata. Era già nella fase cuore-polmone e il suo respiro era un sibilo che feriva. 
Non dimenticherò mai quel momento. La storia dell’amianto è emblematica e co-significativa di una condizione sociale. E’ scritta sui corpi malati di una classe sfruttata. Una storia che non è finita, continua in forme e con nomi diversi ed è sempre la stessa. Abbiamo visto e provato, da figli, quella sofferenza e quel male dell’anima così profondo, quel male dentro, indelebile. Non perdoneremo il male che è stato fatto ai nostri genitori, fratelli, cugini, zii, amici e compagni dei nostri cari e lotteremo per questo finché avremo forza e voce. 
Oltre all’esperienza della malattia vissuta da milioni di lavoratori, alla sofferenza delle famiglie, la profonda e devastante giustizia negata non ha aiutato ad elaborare quel lutto personale e sociale che resta dentro al cuore dei singoli e della società stessa. Il senso dell’impotenza, della mancata riparazione del danno, dell’omertà che tuttora perdura attorno alla questione dell’amianto (e di altri agenti tossici) sono il segno emblematico di una “malattia di sistema”, il male tossico che avvelena un’intera comunità.

Una poesia di Enrico Sala sulla fabbrica vincitrice del premio di poesia "Il Bottaccio" 2014

IER SUN PASSAA DE LA’
(davanti ai cancelli ex IBM. Ex Celestina, ex Bamez)
di Enrico Sala
Rumùr…rumùr…rumùr…
Se sentiva un gran bèl baccan.
Baccan de macchin
che se fermaven mai
“semper püsse d’ier
ma menu de duman”
e me, gio ‘l coo e suta a laurà.
Ma incoeu l’è ‘l silenzi
a fà baccan. Un frecass
ch’el me sturdees la crapa.

Ier sun passaa de là.
Soeu i cancej senza poeu vüs
nanca un sbindol de vita
a specià l’alba. In de l’aria
dumè eco de paroll rassegnaa,
arrenduu a l’abitüdin
d’una fiacca attesa che stracca.

El fa pagüra ul scür de la solitüdin
che, in de l’ultima ura de la nòcc,
la se infila in un cuu de sacch
che sa de pisa, induè
manca la lùna la sgulza fas vedè.
Ma me nò, me voeuri nò negà
in del fund de l’ültim biceer,
me voeuri turnà a luttà
cun chel che resta de la mia dignità.

(traduzione dal vernacolo della Brianza valle del Lambro)

IERI SONO PASSATO DI LA’

Rumore…rumore…rumore…/ si sentiva un gran bel rumore. / Rumore di macchine / che non si fermavano mai: / “sempre più di ieri / e meno di domani” / ed io giù la testa e sotto a lavorare. / Ma oggi è il silenzio / a far rumore. Un rumore / che mi stordisce la testa. // Ieri sono passato di là. // Sui cancelli senza più voce / nemmeno un brandello di vita / ad attendere l’alba. Nell’aria / solo eco di parole rassegnate, / arrese all’abitudine / di una fiacca attesa che stanca. // E fa paura il buio della solitudine / che, nell’ultima ora della notte, / s’infila in un vicolo cieco / che sa di piscio, dove / nemmeno la luna osa affacciarsi. / Ma io no, non voglio annegare // nel fondo dell’ultimo bicchiere, / io voglio tornare a lottare / con ciò che resta della mia dignità.