giovedì 21 maggio 2015

"Lotto contro il male come fosse una vertenza aziendale" di Luigi Fedi

Marco Vettori si definiva un "comunista autentico", nonostante la fine dei partiti ideologici tipici degli anni settanta. Parlare di Marco in termini ideologici si travisa la sua autentica militanza politica, sindacale, civile ed umana.
Io ho conosciuto Marco Vettori in CGIL a Pistoia negli anni 70. Si militava in partiti antagonisti, ma nacque una stima reciproca che si è protratta fino alla sua morte.
Abbiamo affrontato insieme l'inizio della vertenza dell'amianto usato alla S.Giorgio ed in Breda CF dopo. Insieme si sono sviluppate le relative azioni di tutela  previdenziali ed assistenziali per i lavoratori.
Il Patronato INCA-CGIL di Pistoia e Regionale ha sempre sostenuto, sulla base di fatti concreti, l'azione di tutela dei lavoratori esposti all'amianto. Aprì oltre 1000 pratiche previdenziali e centinaia di domande di malattia professionale ottenendo numerosi ricnoscimenti.
Marco Vettori per me è stato un uomo onesto e sincero, e come dicevano i miei nonni era un uomo con la “schiena dritta".
Amava la vita; aveva le sue idee nel rispetto di quelle degli altri; lottava contro ogni sopruso; aiutava i deboli, gli amici ed i compagni, persino gli avversari politici nelle cose quotidiane.
Amava la famiglia, la città di Pistoia, la politica, il sindacato e l'impegno civile per il bene della comunità.
Guardava oltre le barriere settarie che gli esseri umani sanno costruire attorno a sé per paura.
Portava una bottiglia di vino, di olio, di grappa " bona"; un piatto di zuppa di pane o di sugo di funghi stupendo, o di ogni altra cosa culinaria pistoiese " bona" di cui era un abile cuoco.
Portava soprattutto un sorriso e l'amicizia, ingredienti indispensabili a chi soffre.
Nei 20 mesi trascorsi dalla scoperta del  tumore alla morte, solo alcune volte si è scoraggiato di come procedeva la "vertenza" che diceva di condurre contro il male che aveva. Era consapevole che la "vertenza" l'avrebbe persa entro poco tempo.
Affrontò con enorme coraggio la malattia che l'aveva colpito e avrei moltissimi esempi da riferire a sostegno di ciò.
Voglio ricordarne uno.
Domenica 7 Agosto 2011. Al mattino ci recammo alla casa paterna di S.Baronto per prepare l'ambiente per il pranzo di Ferragosto da fare con gli oltre 20 familiari.
Lavorava con soddisfazione e si parlava del futuro senza limiti facendo anche dei pregetti da realizzare insieme.
Avevamo fissato con le consorti di tornare per il pranzo a casa, ma decidemmo di rimanere e di arrangiarci presso un'osteria locale.
Ci venne a trovare  la sig.ra Carla , vicina di casa e conoscente di suo padre Libero per le vicende belliche della seconda guerra mondiale.
Domandò: Marco come stai? E' vero che anche te hai un tumore?
Rispose a Carla serenamente:”si è vero, ma lotto e mi curo”.
Parlammo del più e del meno e data l'ora ci chiese se accettavamo di mangiare un piatto di pasta con gamberetti e panna, che avrebbe preparato per noi. Accettammo l'offerta. Dopo poco la signora ci porta la minestra e con soddisfazione mangiammo questa bontà al fresco del pino.
Era felice di essere in quel posto a pranzare.
Nel pomeriggio ricevette il direttore regionale del Tirreno. L'intervista si basò sulla sua malattia correlata all'amianto e come la viveva. Affrontarono anche la vertenza dell'amianto alla Breda CF. Nei 90 minuti di colloquio rimase sereno nell'esporre i fatti nei minimi particolari. Al termine del colloquio Marco era tranquillo mentre il Direttore del Tirreno era commosso ed emozionato e si congedò con le lacrime agli occhi. Dopo qualche giorno uscì l'intervista nella cronaca regionale. Questo era Marco.
Nonostante la forte sofferenza fisica che gli procurava il male aveva parole di coraggio per chi gli era vicino e magari soffriva come lui.
Era sempre pronto ad andare a trovare i compagni di lavoro malati recando loro parole di conforto.
Ha saputo manifestare con impegno e determinazione il bene che voleva alla famiglia ed a tutta la comunità pistoiese, sia verso i singoli che verso le istituzioni.
Marco Vettori rimane un esempio di uomo onesto e combattente contro:
-le ingiustizie
-il male fisico
-la burocrazia che affoga i diritti dei cittadini
-la negligenza di coloro che sono preposti alla tutela della salute.
E' stato un forte difensore della "cosa pubblica" come un bene comune irrinunciabile e non negoziabile.
Lottare insieme contro i soprusi e le incompetenze di alcuni gestori della cosa pubblica era il suo motto.
Noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo e di stargli vicino, dobbiamo trarre dal suo comportamento la forza di guardare al domani con coraggio e fiduciosi di risolvere i troppi problemi che attanagliano la vita quotidiana di ciascuno di noi.
Indimenticabili sono i colloqui fatti all'ombra degli olivi nell'orto alla Brana, dove consapevolmente la speranza prevaleva sulla paura per il breve tempo che gli rimaneva di vivere.
Grazie per quello che ci hai dato.
Rimani per sempre nel cuore e nella mente.

(Luigi Fedi)

martedì 12 maggio 2015

LA DONNA TOUBAB

     A Diana Bellandi non gliene fregava nulla che piovesse. In quella stramba estate romana se non ci fossero state quelle frequenti giornate di pioggia niente le avrebbe restituito scampoli di smarrita naturalità. E’ vero, era estate, mese di luglio, il sole doveva farla da padrone, arroventare la città come il fabbro col ferro. A Diana, però, la pioggia era sempre piaciuta, guardava i goccioloni venire giù ed era davvero curioso vedere come, infrangendosi nelle pozzanghere, essi disegnassero profili somiglianti a quei tortellini che per una come lei, emiliana purosangue, rappresentavano casa.
     Sotto quella pioggia battente, dove tutti correvano lei camminava; andatura lenta, che più tempo avrebbe impiegato per tornare in quelle due stanze prese in affitto a Roma e più si sarebbe liberata da quel senso di saturazione verso le parole che la assaliva dopo otto, talvolta dieci, ore di lavoro.Sentiva l’ urgenza di desaturarsi di chiacchiere per nutrirsi di silenzio. Taceva e sorrideva. Se ne stava quanto più possibile alla larga da branchi di gente che inveivano contro il maltempo, tutti presi nel delirio di telefonarsi addosso, di inviarsi messaggini o sbirciare il mondo su quel buco della chiave che sono i social network.
     Rideva annusandola quella pioggia, che sapeva così forte di salmastro, di un mare che Diana in due anni di domicilio alla periferia di Roma, zona ostiense, non era mai riuscita a vedere. Tutta colpa di quel suo lavoro, forse più una tirannia legalizzata che un lavoro. Da mesi non aveva fatto un solo giorno di ferie. Era Natale quando fece ritorno dai suoi, nella bassa modenese, ma come di consuetudine fece prima a tornare che a partire. Accadeva così quando affioravano vecchie ruggini di famiglia, incomprensioni con i genitori.
     Per tutta l’estate sarebbe stato solo lavoro: al call center di Via Pisa era la più giovane, non era un maschio, non teneva famiglia, aveva atteggiamenti da sindacalista, non era così piacente e disponibile come altre colleghe, non sapeva leccare il culo ai capi e, quindi, nisba per giorni di ferie o permesso. La sua vacanza era uscire fuori da quel posto di lavoro che aveva così tanto creduto darle l’indipendenza e la tranquillità economica ma che, giorno dopo giorno, la conduceva verso una sedazione di vita e che aveva poi imparato a odiare con tutta se stessa.              Diana, di quel capannone adibito a call center, odiava tutto. Non ce la faceva più a contenere quel sentimento che le schiumava dal dentro e andava così a impregnarsi sulla sedia della sua postazione, sullo schermo del computer, sui colleghi, sui fiori di plastica colorata, finti come quella sua voce suadente, gentile e premurosa che poteva ascoltare chi chiamava il numero verde di un grande gestore telefonico, uno di quelli che paga milioni di euro i comici, gli attori e i calciatori e poi, però, intende risparmiare su tutto il resto.
     Diana lavorava a un call center di uno dei più grandi colossi della telefonia mobile italiana: contratto a progetto, mobilità a discrezione del datore di lavoro, debito orario mensile di 192 ore (estendibili secondo volontà della dirigenza), malattie e maternità non riconosciute e quindi non pagate, dodici giorni di ferie l’anno, stipendio base di seicento euro al mese. Base perché se eri più brava ad agganciare il cliente delle tue colleghe di lavoro ecco che potevi arrivare a settecento, se non addirittura ottocento euro al mese.
     “Agganciare il cliente” era la parola d’ordine, l’ossessione di chi lavorava lì dentro, circa 120 centralinisti per turno: incattiviti dalla competizione, allineati come soldatini asserragliati nelle rispettive postazioni, alienati e confusi dall’essere un numero di matricola, bombardati da una media di tre telefonate al minuto, più o meno 1400 telefonate per turno di lavoro. Roba da rincitrullire. Inevitabile, poi, cercare il silenzio.
     Prima di essere assunta le avevano fatto un corso di formazione dove chiari, precisi e definiti erano i compiti del buon centralinista. Per far presa sul chiamante occorreva rispondere celermente, ovvero non far oltrepassare tre squilli di telefono, avere sempre un timbro di voce disponibile e cortese, intrattenere il cliente per un tempo compreso tra i venti secondi e due minuti, vale a dire in uno spazio temporale sufficiente per agganciare il chiamante, risolvergli il problema per il quale chiamava e, autentico valore aggiunto della centralinista, proporgli l’ultima promozione aziendale, magari proprio quella lanciata dalla Belen di turno.
A casa sua, a Formigine, dicevano che Diana somigliasse un po’ a Belen Rodriguez. A guardarla bene, forse una qualche somiglianza, specie nel taglio degli occhi e nella forma del viso, ci poteva stare. Dopo due anni di call center, la verità era che pareva più simile a Platinette che alla modella argentina. Chiusa nel suo gabbiotto, costretta all’immobilità fisica e a pasturarsi con quelle merendine e bevande del call center di Via Pisa, Diana era ingrassata di venti chili e aumentata di due taglie: le avevano pure dovuto cambiare la divisa, con tanto di detrazione “addebito vestiario” su una busta paga già abbastanza leggera di suo.
     Era una ragazza orgogliosa e vanitosa, che anche per vanità e orgoglio era andata via di casa. Nel vedere l’ago della bilancia sfiorare gli ottanta chili si faceva schifo, ma con quello stipendio, se anche avesse voluto seguire una dieta, avrebbe finito per spendere più soldi per dimagrire che per mangiare o vestirsi. Doveva mangiare meno! Ma la fame che l’assediava quando era di turno era qualcosa di incontrollabile, di compulsivo.
     Dentro al capannone adibito a call center, chi più chi meno un po’ tutti soffrivano di quel disturbo: d’altronde, incatenati com’erano alle loro postazioni, obbligati a ghermire il telefono prima della fatidica soglia del terzo squillo, lì dentro gli unici svaghi concessi ai dannati del call center erano mangiare e bere. Anche andare al cesso pareva un privilegio ed era bene non intrattenercisi troppo, che di pretesti per chiuderti il contratto a progetto quelli della grande ditta della telefonia erano maestri.
     Quel mestiere le ricordava la “casa dei conigli” del podere di famiglia: non c’era poi troppa differenza tra l’allevamento di quelle bestie e i bugigattoli dei centralinisti. Quand’era piccola era in quel modo che Diana chiamava la conigliaia di babbo Augusto, conigli che quel despota di suo padre riempiva di medicine per farli crescere e ingrassare rapidamente che la logica del profitto non ammetteva perdite di tempo. La figlia grande della famiglia Bellandi aveva origini contadine, e dopo generazioni di lavoranti la terra ecco che era arrivata lei a spezzare colpevolmente quella tradizione, che non bastava esser nata con la colpa di essere femmina per tirarsi addosso le ire che quel padre teneva a malapena soffocate in silenzi.
     Nel podere Bellandi convivevano tre generazioni, la cucina come cuore pulsante, le stagioni come rituali, la terra come datore di lavoro. L’edificio, tutto in mattoni rossi con grandi finestre, se ne stava posàto su campi dove di sera la nebbia veniva a sdraiarsi, non prima di essersi aggirata, come sciarpa filante, a fare l’appello dei dimoranti notturni della padana. Quella bruma sospesa a un metro da terra appianava tutto e chiunque passando di lì in quelle ore avrebbe provato vertigini: quelle di pianura, del vuoto attorno, così diverse ed uguali rispetto a quelle di montagna, di altezza.
     Il nonno, si chiamava Celeste, era ormai in là con gli anni e il cervello con troppe perline schiodate in testa per evitare che gli si infiltrasse un po’ di marcio. Il capobranco era diventato Augusto, un uomo rigido, incanalato in una sola, ristretta mentalità come i solchi che il suo aratro apriva nei campi. Non troppo diverso era il pensiero di Maddalena, mamma di Diana.
     Diversamente da suo padre Celeste, quell’uomo era ossessionato dal profitto e dal dover essere competitivo sul mercato. Negli anni aveva perso il senso della misura che aveva contraddistinto le precedenti generazioni, stressato il terreno riempiendolo di fertilizzanti per forzarlo a dare di più, schiavizzato un paio di disgraziati extracomunitari che avevano sognato l’eldorado occidentale ma che erano poi finiti in una galera a cielo aperto. Non contento, Augusto, si era quindi indebitato con le banche per comprare macchine agricole sempre più progredite, riempito le diete di conigli, polli e vacche di antibiotici e acceleratori di metabolismo per indurli a crescere alla svelta, che più carne macellava e più soldi entravano.
     E chissenefrega se qualcuno gli rimproverava di non vendere più le carni di un tempo, tanto per un compratore che gli girava le spalle ce n’era subito uno pronto a farsi avanti, attratto dall’ aspetto così bello ma altrettanto insano delle sue bestie: “Che tanto, oggi la gente compra con gli occhi e di certi sapori non ricorda mica più niente” Così diceva Augusto.
     Era un uomo affetto da dismisura, ossessionato dal denaro, infelice, abbruttito dal lavoro, sfibrato dalla fatica e dall’insonnia di troppe notti passate a far conti ed escogitare nuove tecniche di profitto. Sentiva di essere al limite, di non farcela più ma non per questo mollava la presa. Quello che pretendeva era che Diana facesse come lui, la pensasse come lui, ragionasse nello stesso identico modo del padre.
     Ma Diana, della terra non se ne prendeva cura. Forse quella di nonno Celeste ma non certo quella di suo padre Augusto. Per anni, quell’uomo l’aveva rimproverata di essere nata femmina, di non avere forza nelle braccia, di trastullarsi con le bambole, di essere troppo delicata per trattare la terra, di commuoversi per mucche chiamate Clementina, Tilde, Roberta… Era così cinico quando, nell’ammazzare conigli, la costringeva ad imparare, a staccar loro la pelliccia con l’aria compressa quando erano ancora vivi, che muovevano ancora gli occhi quando erano un ammasso di carne sanguinolenta e tenevano gli sguardi fissi su quel loro pellame che scivolava a terra. La sfidava a non avere pietà, a fare la dura. Non si rendeva conto, quell’uomo, che si costruiva il frustino per il suo culo. Diana era cresciuta in assenza di amore paterno, meditando una vendetta.  Attese i giorni più propizi, quelli in cui il genitore si sarebbe aspettato la presenza della figlia.
     La notte del venti maggio 2012 tutta l’Emilia Romagna venne sconquassata da un tremendo terremoto. Paesi, casolari, alberi e genti divennero briciole di pane che ballavano sulla tovaglia della Pianura Padana. Tremavano come la tela del ragno quando viene pizzicata da una mano. Nel profondo della terra dormiva un mostro che nessuno tra i vari esperti di geologia pensava dimorasse lì, magari in altre zone d’Italia ma non nel ventre piatto e flaccido della padana. Il mostro infierì soprattutto nella bassa modenese e anche il podere Bellandi venne disastrato e dichiarato inagibile. La famiglia di Diana si ritrovò col culo per terra, indebitata e impossibilitata a tirare avanti con la produzione dei campi e i profitti ricavati dalla macellazione delle bestie.
     Lo Stato, impegnato nel garantire aiuti e soccorsi, bloccò tutto. Dicevano che era una cosa provvisoria, che presto si sarebbero sbloccato tutto, ma in Italia niente è più definitivo del provvisorio e la questione si prolungò per diverse settimane.
     Fu in quel frangente che venne fuori l’orgoglio e il carattere di Diana. Costituì un comitato, iniziò a protestare, a ribellarsi contro burocrati e politici. Fondò il movimento della “disobbedienza produttiva”. Le fabbriche, le imprese agricole e gli artigiani emiliani avevano da ripartire subito! Altro che fermo imposto dallo Stato o piagnistei per elemosinare due euro! Il padre padrone dapprima la ignorava, poi, nel tempo, si rese conto che quella sua figlia aveva coglioni più di qualsiasi altro maschio. Cercò di avvicinarla, di farsela amica, di ricostruire un rapporto che lui, giorno dopo giorno, aveva logorato. Ma Diana non ne volle sapere e, forse, mancò l’occasione unica di una riappacificazione quando decise di piantare tutto e andarsene a Roma.
     Di quell’impiego come centralinista gliene aveva parlato una sua amica… “Non ti stanchi, sei al coperto, lavori le tue otto ore e poi nessuno che ti stressa più! E, poi, sei una che appartiene a una grande squadra della telefonia italiana! Vuoi mettere?!”
     Diana, sulle prime, nemmeno la prese in considerazione quella proposta…poi, ci ripensò e decise di provare. In fondo, anche quella era una strada per rendersi indipendente, per dimostrare ai suoi genitori di sapersela cavare da sola.
     Non ammise mai a babbo e mamma di avere sbagliato, di aver sentito la mancanza della vita di podere: non le piaceva solo quando era lì, ma bastava salisse sul treno, a Modena, per provare un senso di doloroso distacco. Diana era fatta così, era in un posto e sognava di trovarsi in un altro.
     Ventitré mesi. Tanto era il tempo trascorso a Roma. Gli inizi non furono male: la sfida alla solitudine, gli svaghi di una grande città, le simpatie di un collega. Si chiamava Nello, veniva da Napoli ed era uno dei pochi maschi che lavoravano al call center dove la maggioranza della forza lavoro era rappresentata da donne in età compresa tra i venticinque e i cinquant’anni.
     Diana era una ragazza di partenze e mai di ritorni. Gli inizi le piacevano, la stimolavano. Dava tutto nelle partenze, ma poi difettava di continuità. Era così nel lavoro, in quelle poche amicizie che riuscì a instaurare a Roma e anche nei rapporti affettivi. Quel Nello lo fece diventare pazzo. Lui si innamorò di Diana, lei credette e basta di innamorarsi. Il suo affetto era debole come il sole anemico di certi giorni di novembre e scoloriva presto nella noia, sentimento che Diana proprio non sopportava.
     E allora, per cercare di restituire nuova linfa a quella storia, ecco che Diana trascinava il rapporto con Nello fin sull’orlo del precipizio, lo faceva ciondolare un po’ nel vuoto della fine e solo dopo lo riacciuffava. Era così che riusciva a sottrarlo alla noia, a riassaporare gli inizi, ad apprezzare il valore di un nuovo abbraccio.
     Poi, ecco che un giorno Nello si stancò di farsi zerbino, di quel prendi e lascia, e decise di andarsene: da Diana come dal call center, che non avrebbe potuto sopportare quel posto che parlava di quell’amore maltrattato da parte di una donna che, in fondo, pagava in età adulta la diseducazione ai sentimenti che le era stata impartita sin da piccola. All’abbandono da parte di Nello, Diana reagì con il suo solito orgoglio. All’inizio le sembrò quasi una liberazione, poi, però, capì di aver sbagliato e maledetto il suo orgoglio se mai e poi mai trovò la forza di ricercarlo, anche solo per scambiarsi due parole di chiarimento.
     Si sentì difettosa, sbagliata e quanto, in quei momenti di solitudine, le tornavano in mente certe parole di nonno Celeste lo sapeva solo lei! Quando era in testa, Celeste parlava spesso a quella sua nipote. Lo faceva per metafore “Che così capisci subito e ti restano a memoria”. Diceva sempre così.
Tanti anni prima di quei giorni romani, il nonno volle parlare alla nipote della difettosità degli uomini, del loro incancrenirsi nell’orgoglio e nel rancore. Per far meglio comprendere a Diana il significato di quello che voleva trasmetterle, Celeste attese un giorno di neve.
    Aveva appuntamento con un pastore di Pievepelago, paese alle pendici delle creste appenniniche, per vedere certe bestie da comprare, soprattutto mucche. Chiese a Diana, bimba di nove anni, se poteva venire con lui. Diana accettò subito, con gioia. Erano quasi arrivati quando a un certo punto, oltrepassata una curva, la strada scomparve improvvisamente. Una slavina staccatasi dal sovrastante pendio aveva riempito con un’enorme gobba bianca tutta la sede stradale. Nel suo rovinare a valle, la massa nevosa aveva trascinato giù alberi, sassi, erba…      A guardarlo dal basso, quel gigantesco solco scavato tra abeti e faggi pareva un trampolino verso il cielo. I due si fermarono, Diana si aspettava che il nonno si arrabbiasse per quella fermata obbligata, per tornare indietro e riprendere un’altra strada, una deviazione per Pievepelago. Invece ecco che Celeste rimase lì, scese dalla macchina e invitò Diana a fare altrettanto. Poi, fatti alcuni passi verso i cumuli della slavina ecco che il nonno parlò… “Vedi Diana, non capita solo agli uomini di baruffare”. La bimba annuì. Lo fece guardando il nonno, rimanendo in silenzio e senza capire il perché di quelle parole. Pochi secondi ed ecco che Celeste riprese a parlare.
     “Anche nel mondo naturale esistono cattiverie, violenze e dolori. La neve che tutto travolge, che sbarba da terra giovani pianticelle, colpevoli solo di essersi trovate a crescere in un luogo sfortunato. Accade così anche per gli uomini, ma essi fanno ancora peggio”
“Noi non facciamo questi disastri!” reagì con fare risentito Diana. “Hai ragione Diana, noi facciamo di peggio. Perché dopo la cattiveria o la violenza seminiamo i veleni dell’orgoglio e del rancore. E non sappiamo più liberarcene, se non con la morte. In questo, la Natura è migliore di noi, perché sa perdonare, dimenticare e ripartire. Ricordatelo questo posto, ti ho fatto scendere dalla macchina perché tu lo porti in memoria, e quando tornerai a passarci vedrai come dove adesso vedi devastazione in futuro noterai che sono cresciute nuove piante, altri fiori… Non ci sono rancori e stupido orgoglio in Natura, quelli sono difetti degli uomini. Prova, se ti riesce, ad essere migliore, a somigliare a questa neve. Se qualcuno ti fa un torto o sei tu a sbagliare, usa sempre il tempo che hai per perdonare, capire, dimenticare e ripartire. Non aspettare, perché si pensa sempre di avere tempo poi… il tempo sparisce, qualcuno se ne va e… restano solo rimpianti.”
     Diana, per anni aveva battezzato come un inutile e non richiesto sermone quel discorso del nonno e soltanto quando si ritrovò sola in quella sconosciuta e straniera periferia di Roma capì quanto difettosa fosse la sua vita. E quanto i problemi di lavoro la rendessero ancora peggiore.
Con il passare dei giorni, la vita al call center diventava sempre più un inferno. Nuovi e più arroganti manager e dirigenti sostituirono i precedenti, che parevano già squali quelli! Il clima lavorativo era alienante, Diana non capiva se era più oggetto lei degli oggetti che usava.
Il direttore del call center stilò un nuovo, rigido, codice comportamentale pieno di obblighi, doveri e sanzioni. Qualcuno interpellò i sindacati di categoria, ma i rappresentanti erano troppo conniventi e presi dal far carriera a leccare il culo ai capi di quel gestore telefonico per difendere quelle poche sciagurate di centraliniste. Erano operaie senza voce, che le parole dovevano servire solo per essere cortesi al telefono, anche con bambini che volevano fare scherzi, con maniaci sessuali che si masturbavano al telefono, con psichiatrici che urlavano di schizofrenia o cercavano solo una voce amica che raccogliesse le loro paure, con sconosciuti che dipendevano dal cellulare come il drogato dall’eroina e che pretendevano immediate risposte e soluzioni per qualsiasi problema.
     Un giorno, Diana e una sua collega decisero di raccogliere prove delle vessazioni cui erano sottoposte al call center. Acquistarono una microcamera per fare delle riprese e filmarono un intero turno di lavoro. Pensavano di andare poi a qualche trasmissione televisiva tipo “Le iene” o “Striscia la notizia” per fare denuncia di cosa volesse dire lavorare nel duemila quattordici in certi posti dove i dipendenti non hanno voce su niente.
     Una dipendente, centralinista di mestiere, ruffiana di vocazione, vide Diana e quella sua amica collega fare le riprese e non mancò di informare i manager. Il processo di Norimberga sembrò niente in confronto a quello che mise alla sbarra le due spione e consegnò alla ruffiana le stigmate di capoturno.
     Diana venne sospesa per un mese, la sua amica per due. Per entrambe scattò la sanzione economica con detrazione del quaranta per cento dello stipendio per un periodo di sei mesi. In pratica, quando sarebbero rientrate al call center, seppur adempiendo al loro debito orario di centonovanta e passa ore mensili, le due condannate avrebbero riscosso circa quattrocento euro al mese. Che ci fai, a Roma, con una simile miseria se solo per affitto e spese per mangiare e luce ti partivano settecento euro mensili?
     In quei giorni di buia disperazione Diana pensò più volte di tornare a podere. Fu il solito maledetto orgoglio a fermarla. Mai e poi mai avrebbe voluto vedere suo padre schernirla, ridicolizzarla per essere tornata, sconfitta e a testa bassa, all’ovile.
Rimase a Roma. Senza stipendio perse la casa in affitto. Un paio di sere si mise a camminare sui marciapiedi di una periferia di Roma abitata da puttane e magnaccia. Si atteggiava a prostituta.
Gli uomini in cerca di sesso facile riconoscevano in lei un certo imbarazzo, capirono che era una novizia da approfittarsene subito, che prima la scopavano e più si sarebbero divertiti. Si fermò un tipo che guidava un macchinone grigio. Abbassò il finestrino. Lei ci guardò dentro. Ma poi, imbarazzata e inadeguata, scappò via. Camminò per ore. Freddo dentro e fuori. Si ritrovò in un vicolo pieno di donne e uomini neri come e più di quella notte. Erano senegalesi e di quei loro corpi poteva vedere solo le bianche dentature che danzavano, quasi beffeggianti, a mezz’aria.Si imbrancò con loro, la chiamavano la “ Donna Tubab” che nel linguaggio dei vù cumprà del Senegal significava la femmina bianca.
     Le dettero da mangiare, altri vestiti e un angolino dove dormire. Si sentì accolta, quasi partecipe di una piccola comunità ai margini della città dove uomini e donne sapevano stare assieme, raccontarsi, confidarsi gli accadimenti del giorno trascorso a pulire parabrezza delle auto ferme a un semaforo oppure a vendere cianfrusaglie per strada. Vivevano in un modo comunitario, parlavano ed ascoltavano: era in quel posto che le parole si riprendevano un valore e durante i dialoghi non vi era una di esse che restava inascoltata, bambina orfana che nessun orecchio si degnava poi di raccogliere, di adottare come, speso, accadeva nel parlare tra italiani.
    Per taluni aspetti, la comunità dei senegalesi somigliava alla grande cucina del podere Bellandi, laddove tre generazioni aspettavano le ore della cena e quelle successive attorno al fuoco per raccontarsi. Fu in quei giorni che Diana capì che per andare avanti doveva tornare indietro, il che non voleva dire rincasare in Emilia ma cercare di migliorare la sua situazione lavorativa e quella delle sue colleghe del call center.
    I capi del gestore telefonico la richiamarono per un colloquio. Non avevano un tono amichevole, ma quello non l’avevano mai avuto. A non essere più la donna sottomessa era Diana: se prima tollerava, abbassava la testa, si faceva ricattare, contraccambiava la sua esistenza per una somma ridicola, adesso non sopportava più niente di quella vita: li mandò a fanculo.
     Ciò nonostante pensò che fosse stato giusto fare qualcosa per aiutare quei dannati del call center. Si ricordò di madri che lasciavano figli sparsi qua e là, in preda alla playstation oppure in balia di donne affittate come balie di giorno e prostitute di notte, le tornarono in mente le difficoltà di chi non aveva tempo per farsi la spesa, di chi tornava a casa con il mal di testa e il vomito, di chi, come lei, si chiudeva in casa, luci spente, intollerante ad ogni voce e rumore.
Qualcuno, quando ancora andava a scuola, le aveva parlato di Stato sociale, di Welfare. Parole in bocca a una sinistra che di sinistra non aveva più niente se poi vedeva e taceva davanti a realtà come quelle dei call center. La vera sconfitta della Sinistra è quella di aver prodotta centinaia di intellettuali ma di aver perso di vista la rabbia e i problemi della gente. Si, la rabbia: vero motore di ogni rinascita.
     Diana non rimise mai più piede al call center. Fondò, aiutata dai senegalesi, una Comune. Una di quelle associazioni che andavano di moda negli anni settanta, dove ribellione, rabbia, coscienza ecologica e solidarietà una volta mescolate tra loro davano vita a un’espressione comunitaria ad oggi dimenticata.
     Adesso, Diana Bellandi gestisce un grande orto condiviso, vende su internet le cianfrusaglie africane e parte dei prodotti dell’orto ai mercati romani, vive in una stanza di una casa che ospita i dannati del call center, fa da balia ai figli di madri lavoratrici del call center. Ed è felice così.

     Poi, sa già che un giorno dovrà tornare al podere. Che la neve, per voce del nonno Celeste, così le aveva insegnato. Ed è bene che se lo ricordi, che vada, che usi il tempo per perdonare, capire. Che poi il tempo sparisce. E restano solo rimpianti. 
(Federico Pagliai)

mercoledì 6 maggio 2015

"DAUGHTERS OF THE DUST" (Figlie della polvere) di Gary Cohn

As a young girl growing up in the Black Hills of South Dakota, Heather Von St. James loved wearing her Daddy’s work coat, the type that she could wrap her whole body inside. It was one of those large construction jackets and was often covered with white flecks of dust. There was something about wearing it that made her feel closer to him, as if he was enveloping her instead of four pounds of nylon. Whenever she had chores outside––whether to feed her rabbits or fetch the mail––she would slip it on and head out to brave the bitter northern cold.
Three decades later, that same coat with the white flecks became much more than a childhood memory. Heartbreakingly, at age 36 and just three months after the birth of her first child, she was diagnosed with malignant pleural mesothelioma. It turned out that those white flecks were asbestos dust brought home by her father from his construction job, and she was exposing herself each time she put the jacket on.
“I believe I was exposed from my father’s work clothes,” Von St. James, now 44, said in recent interview. “He would come home with a white coat, white shoes and white pants, all covered with drywall dust containing asbestos,” she remembered. “I would always wear my Daddy’s jacket. He hung it in the utility room––it was always there. The dusty boots were always there.”
“I’m angry because it could have been prevented, but anger is a negative emotion,” she added. “I’ve turned my anger into action to keep people from being exposed to asbestos.”
Heather Von St. JamesUnfortunately, Von St. James’ story is now one that more and more people are beginning to know. An increasing number of relatively young women are being diagnosed with mesothelioma and other asbestos-related diseases. Some of them, like Von St. James, had no known work-related contact with the substance; they apparently were exposed to asbestos dust through a family member who regularly brought it home.
And like Von St. James, many of these women have become advocates in the fight to raise awareness on the dangers of asbestos-related diseases. As a result of their shared misfortune, Von St. James became part of a tightly knit group of women who later became activists and extremely close friends.
Von St. James, Linda Reinstein, Janelle Bedel, Louise Williams and Debbie Brewer were drawn together by a terrible fate, but instead of deciding to simply accept it, they chose to rewrite it. Their advocacy work has been aimed at not only being a support system for fellow victims but also serving as that resounding voice against this preventable disease.
They initially met at conferences and/or through their mutual advocacy work on behalf of asbestos victims. Close friendships quickly formed, and starting in 2008, they developed a social media network on Facebook to provide far-reaching support to enhance their activism.
Crucially, online social networking enabled the women to expand their spheres of influence and support to other women on a global basis. “As a result of technology, I’ve been able to meet and work with people from around the world,” said Reinstein. “The power of social media proves there are no boundaries. We can connect and share with people in a millisecond.”

“The New Patient Profile”

This ever-growing and progressively interconnected online community has become even more important as many newly diagnosed mesothelioma sufferers do not fit the established profile for victims of the disease.
Mesothelioma and other asbestos-caused diseases have a lengthy latency period, and most cases of this deadly cancer are diagnosed 30 years or more after the initial exposure. In the past, mesothelioma has traditionally been considered to be an older man’s disease that primarily affected men who worked around asbestos long-term, chiefly in shipyards and construction work.
However, advocates believe, and anecdotal evidence indicates, that an increasing number of women are also being affected, including many whose primary exposure came from family members.
“Younger women under the age of 50, with no known occupational exposure, are being diagnosed with mesothelioma and other asbestos-caused diseases,” said Reinstein. “That’s the new patient profile.”
Reinstein is president and co-founder of the Asbestos Disease Awareness Organization (ADAO), which she founded in 2004 after her husband, Alan, was diagnosed with mesothelioma. She has testified regularly before U.S. congressional committees and given speeches to international organizations on issues involving asbestos exposure and asbestos-related diseases.
“When Alan got sick in 2003, the most common patient was a male with occupational exposure, ages 68 to 73,” Reinstein said. Then, in 2006, she began noticing an emergent casualty group. “I would see more women diagnosed than men,” she added. “There was definitely a pattern, but we really didn’t know why.”
Lou WilliamsLouise Williams, a wife, mother and grandmother, from Macedon, Australia, has been a frontline patient advocate ever since her diagnosis in 2003. Williams’ father died of mesothelioma in 1985, and she was exposed while shaking out his dust-covered work clothes and later while working in a Melbourne office riddled with asbestos.
Williams, 58, said in an email interview from Australia that she too has seen increasing numbers of women diagnosed with asbestos-related diseases. Some of these women were exposed firsthand while working in buildings containing asbestos, but she noticed that “more women are being diagnosed officially with mesothelioma, due to being exposed through their partners working with it and bringing fibers unknowingly home.”
So far, however, no clear data exists showing the extent of these escalating diagnoses of women with these type diseases, or the reasons why.

Daughters Of The Dust

Just last month, Reinstein gave eulogies for two of the young women in her original group, who both died after battling mesothelioma for years. Janelle Bedel, 37, of Rushville, Indiana, died June 19 after a six-year battle––soon after raising support for a Mesothelioma Awareness Day. Debbie Brewer, 53, of Plymouth, England, died June 9 after a seven-year fight that started back in 2006. Brewer, who also worked as an advocate for mesothelioma victims, had said that her only exposure to asbestos came from hugging her father, a dockyard worker, when she was a child.
Janelle Bedel

Wonder Woman

Bedel was 31 and mother to a four-year-old son when she was diagnosed with mesothelioma in 2007. She passed away on June 19, and it still remains unclear exactly how or why she came down with the disease. Her death––and her work as an advocate to raise public awareness––is a vivid reminder of the human face and suffering behind the asbestos statistics.
She spent the last six years battling for her life, undergoing surgery, chemotherapy, radiation, and other treatments, while at the same time working relentlessly to raise money for research and fighting to ban asbestos in the United States and worldwide.
Bedel was nicknamed “Wonder Woman” for her tireless work ethic and indomitable fighting spirit. Her efforts were even cited in the Congressional Record, and U.S. Senator, Joe Donnelly (D-Indiana), wrote her a letter stating, “You have turned your own heartbreaking situation into a source of inspiration. . . Your focus on raising public awareness of the dangers of asbestos exposure, as well as your work to eliminate it, even while enduring difficult medical treatments and precious time away from your husband and son, has motivated many to support this important cause.”
At Bedel’s funeral, Reinstein, ADAO’s president, memorialized Bedel as a heroic advocate for asbestos victims. “As we grieve, we must continue our fight for a global asbestos ban in Janelle’s memory,” Reinstein said in her eulogy. “Our Wonder Woman will live forever in our hearts and in our work.”
Debbie Brewer

Deadly Hugs

Debbie Brewer of Plymouth, England, died of mesothelioma on June 9, just 10 days before Bedel passed away. In interviews, Brewer had said that she was exposed as a child from hugging her father after he came home from work as an asbestos lagger at the Royal Navy’s Devonport Dockport. Lagging is a type of thermal insulation used on pipes, boilers, and many other items found on ships. The U.S. and British navies, among others, routinely used lagging made with asbestos for decades.
Brewer had stated that her father, Philip Northmore, regularly scrapped asbestos from pipes at work and would come home with his overalls covered in asbestos dust. Northmore died of asbestos-related lung cancer in 2006.
That was the same year that Brewer was diagnosed with mesothelioma. The mother of three children, Brewer steadfastly continued her advocacy work for other victims up until the time of her death last month.

Invisible Particles, Inevitable Results

Louise Williams’ father also worked with asbestos on a longstanding basis. He was a plasterer and was repeatedly exposed to the carcinogen while working on building sites in Australia where asbestos was used as an insulator around pipes, in ceilings, and as filler in plaster boards.
Her father’s painful death led Williams to become an advocate regarding the dangers of asbestos. “I would spread the word that anyone working with asbestos should be careful and take necessary precautions, never realizing that one day I would have mesothelioma,” she stated. “Until I was diagnosed, I did not realize that anyone exposed––even minimally––could later be diagnosed with an asbestos-related disease.”
Williams recalled first coming in contact with the deadly material as a small child when her father made a cubby house for her and her sister using leftover asbestos fiber sheeting. Later, her dad would come home from work covered in that same insidious dust, and she or her mother would shake them out before putting them in the washing machine. Williams also used a vacuum cleaner to clean out her father’s car, which was blanketed in asbestos dust.
Later, she unknowingly worked at an office in Melbourne that was full of asbestos. “For three years, I breathed in invisible asbestos particles dislodged from the suspended ceilings and insulator cables,” she recalled in an email.
“Since being diagnosed, I have been a strong advocate, campaigner and given support to many people newly diagnosed and living with an asbestos-related disease,” she wrote. “I am a voice––while still well enough––for those who have died, for those who are living with mesothelioma and are unable to speak out due to health reasons, and for those who are yet to be diagnosed in the future––namely the next generation.”

The Changing Face Of Mesothelioma

Perhaps no one fits the profile of the new mesothelioma victim better than Heather Von St. James, a little girl from South Dakota who just wanted to wear her Daddy’s jacket. 2005 marked the year that was supposed to change Von St. James’ life; little did she know just how much.
Her doctors gave her fifteen months. If she were to do nothing and simply accept her fate, that was all she would have left. With a prognosis as dire as hers, it called for a very aggressive treatment plan, one that most people don’t live through. Her doctors informed her that if she underwent conventional chemotherapy and radiation therapy, she could expect to live around 5 years.
Instead, she chose the option that would give her the best chances of beating her cancer for good. On February 2, 2006, she underwent an extensive surgical procedure called an extrapleural pneumonectomy. This operation removed her affected lung, plus the linings around the lung, her diaphragm, and around her heart. The operation was performed by Dr. David Sugarbaker at the Brigham & Women’s Hospital in Boston, and in the end, was a success.
Von St. James’ battle is now over seven years strong, and she shows no sign of being anything but a survivor. She serves as a source of hope for other victims facing this disease by participating in and creating awareness campaigns and will only continue speaking at conferences that seek to eliminate health and treatment issues surrounding asbestos.
Having lost two of her closest friends this year––both tireless advocates in this ongoing fight––she understands more than ever how much louder her own voice needs to be. Although added safety measures are being taken in the workplace, family members and women at home are continually being put at risk. It is them, the daughters of the dust, that are the changing face of mesothelioma. It is not only up to resilient women like Von St. James, Reinstein, and Williams to speak out about this spreading illness. It is up to all of us to stand up against the misuse of this deadly carcinogen and become a part of the ever-growing, interconnected mesothelioma community, because only then will we have the chance to rewrite this needless fate.

L'autore Gary Cohn è un giornalista docente di giornalismo alla USC Annenberg School of Journalism, vincitore di vari premi tra cui il Pulitzer nel 1998)

(Da: http://www.mesothelioma.com/blog/authors/gary/daughters-of-the-dust-the-changing-face-of-mesothelioma.htm#ixzz3ZM0nPTL8)

lunedì 4 maggio 2015

"ISTANTANEE" di Maurizio de Giovanni (frammento)

Questo è solo un frammento di un bellissimo racconto di Maurizio de Giovanni: potrete leggerlo tutto intero acquistando l'antologia "Nessuno ci ridurrà al silenzio" ed. Cento Autori

Istantanee.
Mi rimane questo, di noi. Di lei. Di tutti. Fotogrammi, sbiaditi e sovraesposti, tanti colori sbagliati e immagini sparse.
Come quelle fotografie conservate alla rinfusa in una di quelle scatole di metallo da biscotti, che pensiamo prima o poi di ordinare in un album e che alla fine preferiamo conservare così, perché non ne ricordiamo la successione o perché non ne abbiamo il tempo; o solo perché alcune di esse sono di una bellezza troppo dolorosa. E ci costerebbe troppo metterci a osservarle di nuovo. A ricordare ancora.
Istantanee.
Che vengono fuori dal cuore all’improvviso, in un sorriso o in un suono, nelle note di una canzone o nella sospensione di un giudizio. Ricordi di un futuro che non ci sarà, l’acuta mancanza dei sogni che non hanno più ragione di esistere, e che a tradimento arrivano di notte e ti fanno ritrovare, la mattina, col cuscino bagnato di malinconia.
Lei che sorride, ragazzina, dal balcone. Il sole dietro, basso, che mi fa strizzare gli occhi e che incornicia i capelli biondi. Ha un vestitino a fiori, le braccia scoperte. E’ bellissima, anche in controluce. Dietro di lei la sagoma grigia della fabbrica, come un monumento alla follia: la fabbrica che dà da mangiare a mezza città. La fabbrica, che ha ucciso quella e l’altra metà; ma allora non lo sapevamo.
Io ero pazzo di lei. Lo fui da quando riesco a ricordare, bambini tutti e due, io un anno in più: e lei era bellissima. Non ho mai conosciuto una bella come lei; era una questione di aria, che attorno a lei diventava musica e profumo. Una di quelle persone che accendono la luce quando arrivano e la spengono quando se ne vanno, lasciando un senso di vuoto insostenibile.
Lo stesso che provo adesso, rivedendo dietro le palpebre chiuse le istantanee di una vita. Di tante vite, anzi.
Io, seduto sulla poltrona del salotto, con un libro in mano. Quanti anni ho? Undici, dodici? Un bambino grasso e triste, a rivedermi ora. Che non sapeva giocare a pallone nei prati polverosi pieni di gobbe e buche, con l’erba che cresceva a chiazze già morte, che finivano con le reti metalliche e le alte mura della fabbrica. Chissà quanti anni di esistenza mi ha fatto guadagnare inconsapevolmente, non saper giocare a pallone.
In quegli anni però avrei dato un braccio per potermi esibire davanti a lei, per poter godere dei suoi occhi ammirati. Io leggevo. Stavo da solo, e leggevo. Mio padre e mia madre erano due operai ignoranti, e se si trattava di libri i soldi c’erano sempre: mi dicevano che io, almeno io, in fabbrica non avrei dovuto andarci. Che dovevo fare il dottore, io; o il professore di scuola, o l’avvocato. Pensavano alla fatica, ai turni di notte, alla sveglia che suonava mezz’ora prima della sirena che scandiva la vita di tutti: non sapevano che era dall’orribile morte che fecero tutti e due, che mi volevano preservare.
Lui invece a pallone ci giocava. Era pure bravissimo. Io naturalmente lo odiavo, sempre pieno di amici e di donne e di votacci in tutte le materie, e per questo amato e seguito da tutti e da tutte. E da lei.
Nell’istantanea della mia mente è in piedi, il pallone sotto al braccio, la faccia sporca con gli occhi azzurri, ridenti, che luccicano nel sole. Alto, muscoloso, snello. Ci morivano dietro tutte, e pure lei.
Devo essere sincero, era simpatico. Un paio di volte è pure intervenuto per salvarmi, quando gli altri si mettevano a prendermi in giro e a tirare schiaffoni che volevano essere scherzosi ma che facevano male, fuori e dentro. Lui schioccava le dita, e tutti se ne andavano come cani bastonati.
Lo faceva perché io ero il vicino di casa di lei, naturalmente. E perché per gratitudine gli passavo qualche compito, era in classe con me, io il primo e lui l’ultimo, ma a chi importava? A qualcuno degli stanchi professori, forse: avviliti dal fatto che a fine corso i loro ragazzi, bravi o non bravi, si mettevano in fila per entrare a far parte della catena di montaggio o delle squadre di gestione dei forni, o di quelli che caricavano il materiale nei containers in partenza nelle albe gelide dal porto. O ai miei, perduti dietro il sogno per me di un futuro lontano dallo squallore dell’abbrutente fatica che non lasciava nemmeno la voglia di fare l’amore.

NIENTE DI MEGLIO DI UNA STORIA: un inedito di Maurizio de Giovanni

NIENTE DI MEGLIO DI UNA STORIA è un testo inedito di Maurizio de Giovanni, scritto come presentazione all'antologia "Nessuno ci ridurrà al silenzio" di cui è stato il curatore ed autore del racconto "Istantanee"

"Niente di meglio di una storia, per raccontare quello che si ha nella mente e nel cuore.
Perché di dotte disquisizioni, di lunghe e verbose conferenze, di tavole rotonde sature di pregnanti interventi ne abbiamo tante, e lasciano quasi sempre il tempo che trovano. Perché le tragedie, i genocidi e le terribili epidemie continuano nel silenzio affogato dal denaro e dall’interesse di pochi, e salvo le persone che ne sono straziate non interessano a nessuno. Perché i saggi urticanti e dolorosi che dicono la verità rimangono a prendere polvere sugli scaffali delle librerie, come gli atti giudiziari dei processi che durano ere geologiche nei faldoni degli archivi dei tribunali. Perché le inchieste televisive che snocciolano dati e numeri ci strappano una smorfia di disgusto che dura un minuto, prima di cambiare canale.
Ma una storia non è così. Una storia è fatta di carne e sangue e lacrime, e di sorrisi che si spengono nel pianto. Le storie sono fatte di concreto dolore, e hanno nomi e cognomi e facce e persone delle quali ci innamoriamo e alle quali ci affezioniamo, che rimangono nel cuore e che sono cicatrici sull’anima.
Le storie sono carezze e le storie sono frustate, e le storie non passano lisce come acqua d’estate. Le storie sono emozioni, e un’emozione abita in un’anima più a lungo di qualsiasi teoria.
E’ per questo che abbiamo scritto storie, per parlare di qualcosa di cui si deve parlare, per non morirne.
Solo storie. Da non dimenticare più."