A Diana Bellandi non gliene fregava
nulla che piovesse. In quella stramba estate romana se non ci fossero state
quelle frequenti giornate di pioggia niente le avrebbe restituito scampoli di
smarrita naturalità. E’ vero, era estate, mese di luglio, il sole doveva farla
da padrone, arroventare la città come il fabbro col ferro. A Diana, però, la
pioggia era sempre piaciuta, guardava i goccioloni venire giù ed era davvero curioso
vedere come, infrangendosi nelle pozzanghere, essi disegnassero profili somiglianti
a quei tortellini che per una come lei, emiliana purosangue, rappresentavano
casa.
Sotto quella pioggia battente, dove
tutti correvano lei camminava; andatura lenta, che più tempo avrebbe impiegato
per tornare in quelle due stanze prese in affitto a Roma e più si sarebbe
liberata da quel senso di saturazione verso le parole che la assaliva dopo
otto, talvolta dieci, ore di lavoro.Sentiva l’ urgenza di desaturarsi di
chiacchiere per nutrirsi di silenzio. Taceva e sorrideva. Se ne stava quanto
più possibile alla larga da branchi di gente che inveivano contro il maltempo,
tutti presi nel delirio di telefonarsi addosso, di inviarsi messaggini o sbirciare
il mondo su quel buco della chiave che sono i social network.
Rideva annusandola quella pioggia,
che sapeva così forte di salmastro, di un mare che Diana in due anni di
domicilio alla periferia di Roma, zona ostiense, non era mai riuscita a vedere. Tutta colpa di quel suo lavoro,
forse più una tirannia legalizzata che un lavoro. Da mesi non aveva fatto un solo
giorno di ferie. Era Natale quando fece ritorno dai suoi, nella bassa modenese,
ma come di consuetudine fece prima a tornare che a partire. Accadeva così
quando affioravano vecchie ruggini di famiglia, incomprensioni con i genitori.
Per tutta l’estate sarebbe stato
solo lavoro: al call center di Via Pisa era la più giovane, non era un maschio,
non teneva famiglia, aveva atteggiamenti da sindacalista, non era così piacente
e disponibile come altre colleghe, non sapeva leccare il culo ai capi e,
quindi, nisba per giorni di ferie o permesso. La sua vacanza era uscire fuori
da quel posto di lavoro che aveva così tanto creduto darle l’indipendenza e la
tranquillità economica ma che, giorno dopo giorno, la conduceva verso una
sedazione di vita e che aveva poi imparato a odiare con tutta se stessa. Diana,
di quel capannone adibito a call center, odiava tutto. Non ce la faceva più a
contenere quel sentimento che le schiumava dal dentro e andava così a
impregnarsi sulla sedia della sua postazione, sullo schermo del computer, sui
colleghi, sui fiori di plastica colorata, finti come quella sua voce suadente, gentile
e premurosa che poteva ascoltare chi chiamava il numero verde di un grande
gestore telefonico, uno di quelli che paga milioni di euro i comici, gli attori
e i calciatori e poi, però, intende risparmiare su tutto il resto.
Diana lavorava a un call center di
uno dei più grandi colossi della telefonia mobile italiana: contratto a
progetto, mobilità a discrezione del datore di lavoro, debito orario mensile di
192 ore (estendibili secondo volontà della dirigenza), malattie e maternità non
riconosciute e quindi non pagate, dodici giorni di ferie l’anno, stipendio base
di seicento euro al mese. Base perché se eri più brava ad agganciare il cliente
delle tue colleghe di lavoro ecco che potevi arrivare a settecento, se non
addirittura ottocento euro al mese.
“Agganciare il cliente” era la
parola d’ordine, l’ossessione di chi lavorava lì dentro, circa 120
centralinisti per turno: incattiviti dalla competizione, allineati come
soldatini asserragliati nelle rispettive postazioni, alienati e confusi
dall’essere un numero di matricola, bombardati da una media di tre telefonate
al minuto, più o meno 1400 telefonate per turno di lavoro. Roba da
rincitrullire. Inevitabile, poi, cercare il silenzio.
Prima di essere assunta le avevano
fatto un corso di formazione dove chiari, precisi e definiti erano i compiti
del buon centralinista. Per far presa sul chiamante occorreva rispondere
celermente, ovvero non far oltrepassare tre squilli di telefono, avere sempre
un timbro di voce disponibile e cortese, intrattenere il cliente per un tempo
compreso tra i venti secondi e due minuti, vale a dire in uno spazio temporale
sufficiente per agganciare il chiamante, risolvergli il problema per il quale
chiamava e, autentico valore aggiunto della centralinista, proporgli l’ultima promozione
aziendale, magari proprio quella lanciata dalla Belen di turno.
A casa sua, a Formigine, dicevano
che Diana somigliasse un po’ a Belen Rodriguez. A guardarla bene, forse una
qualche somiglianza, specie nel taglio degli occhi e nella forma del viso, ci
poteva stare. Dopo due anni di call center, la verità era che pareva più simile
a Platinette che alla modella argentina. Chiusa nel suo gabbiotto, costretta
all’immobilità fisica e a pasturarsi con quelle merendine e bevande del call
center di Via Pisa, Diana era ingrassata di venti chili e aumentata di due
taglie: le avevano pure dovuto cambiare la divisa, con tanto di detrazione “addebito
vestiario” su una busta paga già abbastanza leggera di suo.
Era una ragazza orgogliosa e vanitosa,
che anche per vanità e orgoglio era andata via di casa. Nel vedere l’ago della
bilancia sfiorare gli ottanta chili si faceva schifo, ma con quello stipendio,
se anche avesse voluto seguire una dieta, avrebbe finito per spendere più soldi
per dimagrire che per mangiare o vestirsi. Doveva mangiare meno! Ma la fame che
l’assediava quando era di turno era qualcosa di incontrollabile, di compulsivo.
Dentro al capannone adibito a call
center, chi più chi meno un po’ tutti soffrivano di quel disturbo: d’altronde,
incatenati com’erano alle loro postazioni, obbligati a ghermire il telefono
prima della fatidica soglia del terzo squillo, lì dentro gli unici svaghi
concessi ai dannati del call center erano mangiare e bere. Anche andare al
cesso pareva un privilegio ed era bene non intrattenercisi troppo, che di
pretesti per chiuderti il contratto a progetto quelli della grande ditta della
telefonia erano maestri.
Quel mestiere le ricordava la “casa
dei conigli” del podere di famiglia: non c’era poi troppa differenza tra
l’allevamento di quelle bestie e i bugigattoli dei centralinisti. Quand’era
piccola era in quel modo che Diana chiamava la conigliaia di babbo Augusto,
conigli che quel despota di suo padre riempiva di medicine per farli crescere e
ingrassare rapidamente che la logica del profitto non ammetteva perdite di
tempo. La figlia grande della famiglia Bellandi aveva origini contadine, e dopo
generazioni di lavoranti la terra ecco che era arrivata lei a spezzare colpevolmente
quella tradizione, che non bastava esser nata con la colpa di essere femmina
per tirarsi addosso le ire che quel padre teneva a malapena soffocate in
silenzi.
Nel podere Bellandi convivevano tre
generazioni, la cucina come cuore pulsante, le stagioni come rituali, la terra
come datore di lavoro. L’edificio, tutto in mattoni rossi con grandi finestre,
se ne stava posàto su campi dove di sera la nebbia veniva a sdraiarsi, non
prima di essersi aggirata, come sciarpa filante, a fare l’appello dei dimoranti
notturni della padana. Quella bruma sospesa a un metro da terra appianava tutto
e chiunque passando di lì in quelle ore avrebbe provato vertigini: quelle di
pianura, del vuoto attorno, così diverse ed uguali rispetto a quelle di
montagna, di altezza.
Il nonno, si chiamava Celeste, era
ormai in là con gli anni e il cervello con troppe perline schiodate in testa
per evitare che gli si infiltrasse un po’ di marcio. Il capobranco era diventato
Augusto, un uomo rigido, incanalato in una sola, ristretta mentalità come i
solchi che il suo aratro apriva nei campi. Non troppo diverso era il pensiero
di Maddalena, mamma di Diana.
Diversamente da suo padre Celeste,
quell’uomo era ossessionato dal profitto e dal dover essere competitivo sul
mercato. Negli anni aveva perso il senso della misura che aveva contraddistinto
le precedenti generazioni, stressato il terreno riempiendolo di fertilizzanti
per forzarlo a dare di più, schiavizzato un paio di disgraziati extracomunitari
che avevano sognato l’eldorado occidentale ma che erano poi finiti in una
galera a cielo aperto. Non contento, Augusto, si era quindi indebitato con le
banche per comprare macchine agricole sempre più progredite, riempito le diete
di conigli, polli e vacche di antibiotici e acceleratori di metabolismo per
indurli a crescere alla svelta, che più carne macellava e più soldi entravano.
E chissenefrega se qualcuno gli
rimproverava di non vendere più le carni di un tempo, tanto per un compratore
che gli girava le spalle ce n’era subito uno pronto a farsi avanti, attratto
dall’ aspetto così bello ma altrettanto insano delle sue bestie: “Che tanto,
oggi la gente compra con gli occhi e di certi sapori non ricorda mica più
niente” Così diceva Augusto.
Era un uomo affetto da dismisura,
ossessionato dal denaro, infelice, abbruttito dal lavoro, sfibrato dalla fatica
e dall’insonnia di troppe notti passate a far conti ed escogitare nuove
tecniche di profitto. Sentiva di essere al limite, di non farcela più ma non
per questo mollava la presa. Quello che pretendeva era che Diana facesse come
lui, la pensasse come lui, ragionasse nello stesso identico modo del padre.
Ma Diana, della terra non se ne
prendeva cura. Forse quella di nonno Celeste ma non certo quella di suo padre
Augusto. Per anni, quell’uomo l’aveva rimproverata di essere nata femmina, di
non avere forza nelle braccia, di trastullarsi con le bambole, di essere troppo
delicata per trattare la terra, di commuoversi per mucche chiamate Clementina,
Tilde, Roberta… Era così cinico quando, nell’ammazzare conigli, la costringeva
ad imparare, a staccar loro la pelliccia con l’aria compressa quando erano
ancora vivi, che muovevano ancora gli occhi quando erano un ammasso di carne
sanguinolenta e tenevano gli sguardi fissi su quel loro pellame che scivolava a
terra. La sfidava a non avere pietà, a fare la dura. Non si rendeva conto,
quell’uomo, che si costruiva il frustino per il suo culo. Diana era cresciuta in
assenza di amore paterno, meditando una vendetta. Attese i giorni più propizi, quelli in cui il
genitore si sarebbe aspettato la presenza della figlia.
La notte del venti maggio 2012 tutta
l’Emilia Romagna venne sconquassata da un tremendo terremoto. Paesi, casolari,
alberi e genti divennero briciole di pane che ballavano sulla tovaglia della
Pianura Padana. Tremavano come la tela del ragno quando viene pizzicata da una
mano. Nel profondo della terra dormiva un mostro che nessuno tra i vari esperti
di geologia pensava dimorasse lì, magari in altre zone d’Italia ma non nel
ventre piatto e flaccido della padana. Il mostro infierì soprattutto nella
bassa modenese e anche il podere Bellandi venne disastrato e dichiarato
inagibile. La famiglia di Diana si ritrovò col culo per terra, indebitata e
impossibilitata a tirare avanti con la produzione dei campi e i profitti ricavati
dalla macellazione delle bestie.
Lo Stato, impegnato nel garantire
aiuti e soccorsi, bloccò tutto. Dicevano che era una cosa provvisoria, che
presto si sarebbero sbloccato tutto, ma in Italia niente è più definitivo del
provvisorio e la questione si prolungò per diverse settimane.
Fu in quel frangente che venne fuori
l’orgoglio e il carattere di Diana. Costituì un comitato, iniziò a protestare,
a ribellarsi contro burocrati e politici. Fondò il movimento della
“disobbedienza produttiva”. Le fabbriche, le imprese agricole e gli artigiani
emiliani avevano da ripartire subito! Altro che fermo imposto dallo Stato o
piagnistei per elemosinare due euro! Il padre padrone dapprima la
ignorava, poi, nel tempo, si rese conto che quella sua figlia aveva coglioni
più di qualsiasi altro maschio. Cercò di avvicinarla, di farsela amica, di ricostruire
un rapporto che lui, giorno dopo giorno, aveva logorato. Ma Diana non ne volle
sapere e, forse, mancò l’occasione unica di una riappacificazione quando decise
di piantare tutto e andarsene a Roma.
Di quell’impiego come centralinista
gliene aveva parlato una sua amica… “Non ti stanchi, sei al coperto, lavori le
tue otto ore e poi nessuno che ti stressa più! E, poi, sei una che appartiene a
una grande squadra della telefonia italiana! Vuoi mettere?!”
Diana, sulle prime, nemmeno la prese
in considerazione quella proposta…poi, ci ripensò e decise di provare. In
fondo, anche quella era una strada per rendersi indipendente, per dimostrare ai
suoi genitori di sapersela cavare da sola.
Non ammise mai a babbo e mamma di
avere sbagliato, di aver sentito la mancanza della vita di podere: non le
piaceva solo quando era lì, ma bastava salisse sul treno, a Modena, per provare
un senso di doloroso distacco. Diana era fatta così, era in un posto e sognava
di trovarsi in un altro.
Ventitré mesi. Tanto era il tempo
trascorso a Roma. Gli inizi non furono male: la sfida alla solitudine, gli
svaghi di una grande città, le simpatie di un collega. Si chiamava Nello,
veniva da Napoli ed era uno dei pochi maschi che lavoravano al call center dove
la maggioranza della forza lavoro era rappresentata da donne in età compresa
tra i venticinque e i cinquant’anni.
Diana era una ragazza di partenze e
mai di ritorni. Gli inizi le piacevano, la stimolavano. Dava tutto nelle
partenze, ma poi difettava di continuità. Era così nel lavoro, in quelle poche
amicizie che riuscì a instaurare a Roma e anche nei rapporti affettivi. Quel
Nello lo fece diventare pazzo. Lui si innamorò di Diana, lei credette e basta
di innamorarsi. Il suo affetto era debole come il sole anemico di certi giorni
di novembre e scoloriva presto nella noia, sentimento che Diana proprio non
sopportava.
E allora, per cercare di restituire nuova
linfa a quella storia, ecco che Diana trascinava il rapporto con Nello fin
sull’orlo del precipizio, lo faceva ciondolare un po’ nel vuoto della fine e
solo dopo lo riacciuffava. Era così che riusciva a sottrarlo alla noia, a
riassaporare gli inizi, ad apprezzare il valore di un nuovo abbraccio.
Poi, ecco che un giorno Nello si
stancò di farsi zerbino, di quel prendi e lascia, e decise di andarsene: da
Diana come dal call center, che non avrebbe potuto sopportare quel posto che
parlava di quell’amore maltrattato da parte di una donna che, in fondo, pagava
in età adulta la diseducazione ai sentimenti che le era stata impartita sin da
piccola. All’abbandono da parte di Nello,
Diana reagì con il suo solito orgoglio. All’inizio le sembrò quasi una
liberazione, poi, però, capì di aver sbagliato e maledetto il suo orgoglio se
mai e poi mai trovò la forza di ricercarlo, anche solo per scambiarsi due
parole di chiarimento.
Si sentì difettosa, sbagliata e quanto, in
quei momenti di solitudine, le tornavano in mente certe parole di nonno Celeste
lo sapeva solo lei! Quando era in testa, Celeste parlava spesso a quella sua nipote.
Lo faceva per metafore “Che così capisci subito e ti restano a memoria”. Diceva
sempre così.
Tanti anni prima di quei giorni
romani, il nonno volle parlare alla nipote della difettosità degli uomini, del
loro incancrenirsi nell’orgoglio e nel rancore. Per far meglio comprendere a
Diana il significato di quello che voleva trasmetterle, Celeste attese un
giorno di neve.
Aveva appuntamento con un pastore di
Pievepelago, paese alle pendici delle creste appenniniche, per vedere certe
bestie da comprare, soprattutto mucche. Chiese a Diana, bimba di nove anni, se
poteva venire con lui. Diana accettò subito, con gioia. Erano quasi arrivati quando a un
certo punto, oltrepassata una curva, la strada scomparve improvvisamente. Una
slavina staccatasi dal sovrastante pendio aveva riempito con un’enorme gobba
bianca tutta la sede stradale. Nel suo rovinare a valle, la massa nevosa aveva
trascinato giù alberi, sassi, erba… A guardarlo dal basso, quel gigantesco
solco scavato tra abeti e faggi pareva un trampolino verso il cielo. I due si
fermarono, Diana si aspettava che il nonno si arrabbiasse per quella fermata
obbligata, per tornare indietro e riprendere un’altra strada, una deviazione
per Pievepelago. Invece ecco che Celeste rimase lì, scese dalla macchina e
invitò Diana a fare altrettanto. Poi, fatti alcuni passi verso i cumuli della
slavina ecco che il nonno parlò… “Vedi Diana, non capita solo agli
uomini di baruffare”. La bimba annuì. Lo fece guardando il
nonno, rimanendo in silenzio e senza capire il perché di quelle parole. Pochi
secondi ed ecco che Celeste riprese a parlare.
“Anche nel mondo naturale esistono
cattiverie, violenze e dolori. La neve che tutto travolge, che sbarba da terra
giovani pianticelle, colpevoli solo di essersi trovate a crescere in un luogo
sfortunato. Accade così anche per gli uomini, ma essi fanno ancora peggio”
“Noi non facciamo questi disastri!”
reagì con fare risentito Diana. “Hai ragione Diana, noi facciamo di
peggio. Perché dopo la cattiveria o la violenza seminiamo i veleni
dell’orgoglio e del rancore. E non sappiamo più liberarcene, se non con la
morte. In questo, la Natura è migliore di noi, perché sa perdonare, dimenticare
e ripartire. Ricordatelo questo posto, ti ho fatto scendere dalla macchina
perché tu lo porti in memoria, e quando tornerai a passarci vedrai come dove
adesso vedi devastazione in futuro noterai che sono cresciute nuove piante,
altri fiori… Non ci sono rancori e stupido orgoglio in Natura, quelli sono
difetti degli uomini. Prova, se ti riesce, ad essere migliore, a somigliare a
questa neve. Se qualcuno ti fa un torto o sei tu a sbagliare, usa sempre il
tempo che hai per perdonare, capire, dimenticare e ripartire. Non aspettare,
perché si pensa sempre di avere tempo poi… il tempo sparisce, qualcuno se ne va
e… restano solo rimpianti.”
Diana, per anni aveva battezzato
come un inutile e non richiesto sermone quel discorso del nonno e soltanto
quando si ritrovò sola in quella sconosciuta e straniera periferia di Roma capì
quanto difettosa fosse la sua vita. E quanto i problemi di lavoro la rendessero
ancora peggiore.
Con il passare dei giorni, la vita
al call center diventava sempre più un inferno. Nuovi e più arroganti manager e
dirigenti sostituirono i precedenti, che parevano già squali quelli! Il clima
lavorativo era alienante, Diana non capiva se era più oggetto lei degli oggetti
che usava.
Il direttore del call center stilò
un nuovo, rigido, codice comportamentale pieno di obblighi, doveri e sanzioni.
Qualcuno interpellò i sindacati di categoria, ma i rappresentanti erano troppo
conniventi e presi dal far carriera a leccare il culo ai capi di quel gestore
telefonico per difendere quelle poche sciagurate di centraliniste. Erano
operaie senza voce, che le parole dovevano servire solo per essere cortesi al
telefono, anche con bambini che volevano fare scherzi, con maniaci sessuali che
si masturbavano al telefono, con psichiatrici che urlavano di schizofrenia o
cercavano solo una voce amica che raccogliesse le loro paure, con sconosciuti
che dipendevano dal cellulare come il drogato dall’eroina e che pretendevano
immediate risposte e soluzioni per qualsiasi problema.
Un giorno, Diana e una sua collega
decisero di raccogliere prove delle vessazioni cui erano sottoposte al call
center. Acquistarono una microcamera per fare delle riprese e filmarono un
intero turno di lavoro. Pensavano di andare poi a qualche trasmissione
televisiva tipo “Le iene” o “Striscia la notizia” per fare denuncia di cosa
volesse dire lavorare nel duemila quattordici in certi posti dove i dipendenti
non hanno voce su niente.
Una dipendente, centralinista di
mestiere, ruffiana di vocazione, vide Diana e quella sua amica collega fare le
riprese e non mancò di informare i manager. Il processo di Norimberga sembrò
niente in confronto a quello che mise alla sbarra le due spione e consegnò alla
ruffiana le stigmate di capoturno.
Diana venne sospesa per un mese, la
sua amica per due. Per entrambe scattò la sanzione economica con detrazione del
quaranta per cento dello stipendio per un periodo di sei mesi. In pratica,
quando sarebbero rientrate al call center, seppur adempiendo al loro debito
orario di centonovanta e passa ore mensili, le due condannate avrebbero
riscosso circa quattrocento euro al mese. Che ci fai, a Roma, con una simile
miseria se solo per affitto e spese per mangiare e luce ti partivano settecento
euro mensili?
In quei giorni di buia disperazione Diana
pensò più volte di tornare a podere. Fu il solito maledetto orgoglio a
fermarla. Mai e poi mai avrebbe voluto vedere suo padre schernirla,
ridicolizzarla per essere tornata, sconfitta e a testa bassa, all’ovile.
Rimase a Roma. Senza stipendio perse
la casa in affitto. Un paio di sere si mise a camminare sui marciapiedi di una
periferia di Roma abitata da puttane e magnaccia. Si atteggiava a prostituta.
Gli uomini in cerca di sesso facile riconoscevano
in lei un certo imbarazzo, capirono che era una novizia da approfittarsene
subito, che prima la scopavano e più si sarebbero divertiti. Si fermò un tipo
che guidava un macchinone grigio. Abbassò il finestrino. Lei ci guardò dentro.
Ma poi, imbarazzata e inadeguata, scappò via. Camminò per ore. Freddo dentro e
fuori. Si ritrovò in un vicolo pieno di donne e uomini neri come e più di
quella notte. Erano senegalesi e di quei loro corpi poteva vedere solo le
bianche dentature che danzavano, quasi beffeggianti, a mezz’aria.Si imbrancò
con loro, la chiamavano la “ Donna Tubab” che nel linguaggio dei vù cumprà del
Senegal significava la femmina bianca.
Le dettero da mangiare, altri
vestiti e un angolino dove dormire. Si sentì accolta, quasi partecipe di una
piccola comunità ai margini della città dove uomini e donne sapevano stare
assieme, raccontarsi, confidarsi gli accadimenti del giorno trascorso a pulire
parabrezza delle auto ferme a un semaforo oppure a vendere cianfrusaglie per
strada. Vivevano in un modo comunitario, parlavano ed ascoltavano: era in quel
posto che le parole si riprendevano un valore e durante i dialoghi non vi era
una di esse che restava inascoltata, bambina orfana che nessun orecchio si
degnava poi di raccogliere, di adottare come, speso, accadeva nel parlare tra
italiani.
Per taluni aspetti, la comunità dei
senegalesi somigliava alla grande cucina del podere Bellandi, laddove tre
generazioni aspettavano le ore della cena e quelle successive attorno al fuoco
per raccontarsi. Fu in quei giorni che Diana capì che per andare avanti doveva
tornare indietro, il che non voleva dire rincasare in Emilia ma cercare di
migliorare la sua situazione lavorativa e quella delle sue colleghe del call
center.
I capi del gestore telefonico la
richiamarono per un colloquio. Non avevano un tono amichevole, ma quello non
l’avevano mai avuto. A non essere più la donna sottomessa era Diana: se prima
tollerava, abbassava la testa, si faceva ricattare, contraccambiava la sua
esistenza per una somma ridicola, adesso non sopportava più niente di quella
vita: li mandò a fanculo.
Ciò nonostante pensò che fosse stato
giusto fare qualcosa per aiutare quei dannati del call center. Si ricordò di
madri che lasciavano figli sparsi qua e là, in preda alla playstation oppure in
balia di donne affittate come balie di giorno e prostitute di notte, le
tornarono in mente le difficoltà di chi non aveva tempo per farsi la spesa, di
chi tornava a casa con il mal di testa e il vomito, di chi, come lei, si
chiudeva in casa, luci spente, intollerante ad ogni voce e rumore.
Qualcuno, quando ancora andava a
scuola, le aveva parlato di Stato sociale, di Welfare. Parole in bocca a una
sinistra che di sinistra non aveva più niente se poi vedeva e taceva davanti a
realtà come quelle dei call center. La vera sconfitta della Sinistra è quella
di aver prodotta centinaia di intellettuali ma di aver perso di vista la rabbia
e i problemi della gente. Si, la rabbia: vero motore di ogni rinascita.
Diana non rimise mai più piede al
call center. Fondò, aiutata dai senegalesi, una Comune. Una di quelle
associazioni che andavano di moda negli anni settanta, dove ribellione, rabbia,
coscienza ecologica e solidarietà una volta mescolate tra loro davano vita a
un’espressione comunitaria ad oggi dimenticata.
Adesso, Diana Bellandi gestisce un
grande orto condiviso, vende su internet le cianfrusaglie africane e parte dei
prodotti dell’orto ai mercati romani, vive in una stanza di una casa che ospita
i dannati del call center, fa da balia ai figli di madri lavoratrici del call
center. Ed è felice così.
Poi, sa già che un giorno dovrà
tornare al podere. Che la neve, per voce del nonno Celeste, così le aveva
insegnato. Ed è bene che se lo ricordi, che vada, che usi il tempo per
perdonare, capire. Che poi il tempo sparisce. E restano solo rimpianti.
(Federico Pagliai)
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