martedì 12 maggio 2015

LA DONNA TOUBAB

     A Diana Bellandi non gliene fregava nulla che piovesse. In quella stramba estate romana se non ci fossero state quelle frequenti giornate di pioggia niente le avrebbe restituito scampoli di smarrita naturalità. E’ vero, era estate, mese di luglio, il sole doveva farla da padrone, arroventare la città come il fabbro col ferro. A Diana, però, la pioggia era sempre piaciuta, guardava i goccioloni venire giù ed era davvero curioso vedere come, infrangendosi nelle pozzanghere, essi disegnassero profili somiglianti a quei tortellini che per una come lei, emiliana purosangue, rappresentavano casa.
     Sotto quella pioggia battente, dove tutti correvano lei camminava; andatura lenta, che più tempo avrebbe impiegato per tornare in quelle due stanze prese in affitto a Roma e più si sarebbe liberata da quel senso di saturazione verso le parole che la assaliva dopo otto, talvolta dieci, ore di lavoro.Sentiva l’ urgenza di desaturarsi di chiacchiere per nutrirsi di silenzio. Taceva e sorrideva. Se ne stava quanto più possibile alla larga da branchi di gente che inveivano contro il maltempo, tutti presi nel delirio di telefonarsi addosso, di inviarsi messaggini o sbirciare il mondo su quel buco della chiave che sono i social network.
     Rideva annusandola quella pioggia, che sapeva così forte di salmastro, di un mare che Diana in due anni di domicilio alla periferia di Roma, zona ostiense, non era mai riuscita a vedere. Tutta colpa di quel suo lavoro, forse più una tirannia legalizzata che un lavoro. Da mesi non aveva fatto un solo giorno di ferie. Era Natale quando fece ritorno dai suoi, nella bassa modenese, ma come di consuetudine fece prima a tornare che a partire. Accadeva così quando affioravano vecchie ruggini di famiglia, incomprensioni con i genitori.
     Per tutta l’estate sarebbe stato solo lavoro: al call center di Via Pisa era la più giovane, non era un maschio, non teneva famiglia, aveva atteggiamenti da sindacalista, non era così piacente e disponibile come altre colleghe, non sapeva leccare il culo ai capi e, quindi, nisba per giorni di ferie o permesso. La sua vacanza era uscire fuori da quel posto di lavoro che aveva così tanto creduto darle l’indipendenza e la tranquillità economica ma che, giorno dopo giorno, la conduceva verso una sedazione di vita e che aveva poi imparato a odiare con tutta se stessa.              Diana, di quel capannone adibito a call center, odiava tutto. Non ce la faceva più a contenere quel sentimento che le schiumava dal dentro e andava così a impregnarsi sulla sedia della sua postazione, sullo schermo del computer, sui colleghi, sui fiori di plastica colorata, finti come quella sua voce suadente, gentile e premurosa che poteva ascoltare chi chiamava il numero verde di un grande gestore telefonico, uno di quelli che paga milioni di euro i comici, gli attori e i calciatori e poi, però, intende risparmiare su tutto il resto.
     Diana lavorava a un call center di uno dei più grandi colossi della telefonia mobile italiana: contratto a progetto, mobilità a discrezione del datore di lavoro, debito orario mensile di 192 ore (estendibili secondo volontà della dirigenza), malattie e maternità non riconosciute e quindi non pagate, dodici giorni di ferie l’anno, stipendio base di seicento euro al mese. Base perché se eri più brava ad agganciare il cliente delle tue colleghe di lavoro ecco che potevi arrivare a settecento, se non addirittura ottocento euro al mese.
     “Agganciare il cliente” era la parola d’ordine, l’ossessione di chi lavorava lì dentro, circa 120 centralinisti per turno: incattiviti dalla competizione, allineati come soldatini asserragliati nelle rispettive postazioni, alienati e confusi dall’essere un numero di matricola, bombardati da una media di tre telefonate al minuto, più o meno 1400 telefonate per turno di lavoro. Roba da rincitrullire. Inevitabile, poi, cercare il silenzio.
     Prima di essere assunta le avevano fatto un corso di formazione dove chiari, precisi e definiti erano i compiti del buon centralinista. Per far presa sul chiamante occorreva rispondere celermente, ovvero non far oltrepassare tre squilli di telefono, avere sempre un timbro di voce disponibile e cortese, intrattenere il cliente per un tempo compreso tra i venti secondi e due minuti, vale a dire in uno spazio temporale sufficiente per agganciare il chiamante, risolvergli il problema per il quale chiamava e, autentico valore aggiunto della centralinista, proporgli l’ultima promozione aziendale, magari proprio quella lanciata dalla Belen di turno.
A casa sua, a Formigine, dicevano che Diana somigliasse un po’ a Belen Rodriguez. A guardarla bene, forse una qualche somiglianza, specie nel taglio degli occhi e nella forma del viso, ci poteva stare. Dopo due anni di call center, la verità era che pareva più simile a Platinette che alla modella argentina. Chiusa nel suo gabbiotto, costretta all’immobilità fisica e a pasturarsi con quelle merendine e bevande del call center di Via Pisa, Diana era ingrassata di venti chili e aumentata di due taglie: le avevano pure dovuto cambiare la divisa, con tanto di detrazione “addebito vestiario” su una busta paga già abbastanza leggera di suo.
     Era una ragazza orgogliosa e vanitosa, che anche per vanità e orgoglio era andata via di casa. Nel vedere l’ago della bilancia sfiorare gli ottanta chili si faceva schifo, ma con quello stipendio, se anche avesse voluto seguire una dieta, avrebbe finito per spendere più soldi per dimagrire che per mangiare o vestirsi. Doveva mangiare meno! Ma la fame che l’assediava quando era di turno era qualcosa di incontrollabile, di compulsivo.
     Dentro al capannone adibito a call center, chi più chi meno un po’ tutti soffrivano di quel disturbo: d’altronde, incatenati com’erano alle loro postazioni, obbligati a ghermire il telefono prima della fatidica soglia del terzo squillo, lì dentro gli unici svaghi concessi ai dannati del call center erano mangiare e bere. Anche andare al cesso pareva un privilegio ed era bene non intrattenercisi troppo, che di pretesti per chiuderti il contratto a progetto quelli della grande ditta della telefonia erano maestri.
     Quel mestiere le ricordava la “casa dei conigli” del podere di famiglia: non c’era poi troppa differenza tra l’allevamento di quelle bestie e i bugigattoli dei centralinisti. Quand’era piccola era in quel modo che Diana chiamava la conigliaia di babbo Augusto, conigli che quel despota di suo padre riempiva di medicine per farli crescere e ingrassare rapidamente che la logica del profitto non ammetteva perdite di tempo. La figlia grande della famiglia Bellandi aveva origini contadine, e dopo generazioni di lavoranti la terra ecco che era arrivata lei a spezzare colpevolmente quella tradizione, che non bastava esser nata con la colpa di essere femmina per tirarsi addosso le ire che quel padre teneva a malapena soffocate in silenzi.
     Nel podere Bellandi convivevano tre generazioni, la cucina come cuore pulsante, le stagioni come rituali, la terra come datore di lavoro. L’edificio, tutto in mattoni rossi con grandi finestre, se ne stava posàto su campi dove di sera la nebbia veniva a sdraiarsi, non prima di essersi aggirata, come sciarpa filante, a fare l’appello dei dimoranti notturni della padana. Quella bruma sospesa a un metro da terra appianava tutto e chiunque passando di lì in quelle ore avrebbe provato vertigini: quelle di pianura, del vuoto attorno, così diverse ed uguali rispetto a quelle di montagna, di altezza.
     Il nonno, si chiamava Celeste, era ormai in là con gli anni e il cervello con troppe perline schiodate in testa per evitare che gli si infiltrasse un po’ di marcio. Il capobranco era diventato Augusto, un uomo rigido, incanalato in una sola, ristretta mentalità come i solchi che il suo aratro apriva nei campi. Non troppo diverso era il pensiero di Maddalena, mamma di Diana.
     Diversamente da suo padre Celeste, quell’uomo era ossessionato dal profitto e dal dover essere competitivo sul mercato. Negli anni aveva perso il senso della misura che aveva contraddistinto le precedenti generazioni, stressato il terreno riempiendolo di fertilizzanti per forzarlo a dare di più, schiavizzato un paio di disgraziati extracomunitari che avevano sognato l’eldorado occidentale ma che erano poi finiti in una galera a cielo aperto. Non contento, Augusto, si era quindi indebitato con le banche per comprare macchine agricole sempre più progredite, riempito le diete di conigli, polli e vacche di antibiotici e acceleratori di metabolismo per indurli a crescere alla svelta, che più carne macellava e più soldi entravano.
     E chissenefrega se qualcuno gli rimproverava di non vendere più le carni di un tempo, tanto per un compratore che gli girava le spalle ce n’era subito uno pronto a farsi avanti, attratto dall’ aspetto così bello ma altrettanto insano delle sue bestie: “Che tanto, oggi la gente compra con gli occhi e di certi sapori non ricorda mica più niente” Così diceva Augusto.
     Era un uomo affetto da dismisura, ossessionato dal denaro, infelice, abbruttito dal lavoro, sfibrato dalla fatica e dall’insonnia di troppe notti passate a far conti ed escogitare nuove tecniche di profitto. Sentiva di essere al limite, di non farcela più ma non per questo mollava la presa. Quello che pretendeva era che Diana facesse come lui, la pensasse come lui, ragionasse nello stesso identico modo del padre.
     Ma Diana, della terra non se ne prendeva cura. Forse quella di nonno Celeste ma non certo quella di suo padre Augusto. Per anni, quell’uomo l’aveva rimproverata di essere nata femmina, di non avere forza nelle braccia, di trastullarsi con le bambole, di essere troppo delicata per trattare la terra, di commuoversi per mucche chiamate Clementina, Tilde, Roberta… Era così cinico quando, nell’ammazzare conigli, la costringeva ad imparare, a staccar loro la pelliccia con l’aria compressa quando erano ancora vivi, che muovevano ancora gli occhi quando erano un ammasso di carne sanguinolenta e tenevano gli sguardi fissi su quel loro pellame che scivolava a terra. La sfidava a non avere pietà, a fare la dura. Non si rendeva conto, quell’uomo, che si costruiva il frustino per il suo culo. Diana era cresciuta in assenza di amore paterno, meditando una vendetta.  Attese i giorni più propizi, quelli in cui il genitore si sarebbe aspettato la presenza della figlia.
     La notte del venti maggio 2012 tutta l’Emilia Romagna venne sconquassata da un tremendo terremoto. Paesi, casolari, alberi e genti divennero briciole di pane che ballavano sulla tovaglia della Pianura Padana. Tremavano come la tela del ragno quando viene pizzicata da una mano. Nel profondo della terra dormiva un mostro che nessuno tra i vari esperti di geologia pensava dimorasse lì, magari in altre zone d’Italia ma non nel ventre piatto e flaccido della padana. Il mostro infierì soprattutto nella bassa modenese e anche il podere Bellandi venne disastrato e dichiarato inagibile. La famiglia di Diana si ritrovò col culo per terra, indebitata e impossibilitata a tirare avanti con la produzione dei campi e i profitti ricavati dalla macellazione delle bestie.
     Lo Stato, impegnato nel garantire aiuti e soccorsi, bloccò tutto. Dicevano che era una cosa provvisoria, che presto si sarebbero sbloccato tutto, ma in Italia niente è più definitivo del provvisorio e la questione si prolungò per diverse settimane.
     Fu in quel frangente che venne fuori l’orgoglio e il carattere di Diana. Costituì un comitato, iniziò a protestare, a ribellarsi contro burocrati e politici. Fondò il movimento della “disobbedienza produttiva”. Le fabbriche, le imprese agricole e gli artigiani emiliani avevano da ripartire subito! Altro che fermo imposto dallo Stato o piagnistei per elemosinare due euro! Il padre padrone dapprima la ignorava, poi, nel tempo, si rese conto che quella sua figlia aveva coglioni più di qualsiasi altro maschio. Cercò di avvicinarla, di farsela amica, di ricostruire un rapporto che lui, giorno dopo giorno, aveva logorato. Ma Diana non ne volle sapere e, forse, mancò l’occasione unica di una riappacificazione quando decise di piantare tutto e andarsene a Roma.
     Di quell’impiego come centralinista gliene aveva parlato una sua amica… “Non ti stanchi, sei al coperto, lavori le tue otto ore e poi nessuno che ti stressa più! E, poi, sei una che appartiene a una grande squadra della telefonia italiana! Vuoi mettere?!”
     Diana, sulle prime, nemmeno la prese in considerazione quella proposta…poi, ci ripensò e decise di provare. In fondo, anche quella era una strada per rendersi indipendente, per dimostrare ai suoi genitori di sapersela cavare da sola.
     Non ammise mai a babbo e mamma di avere sbagliato, di aver sentito la mancanza della vita di podere: non le piaceva solo quando era lì, ma bastava salisse sul treno, a Modena, per provare un senso di doloroso distacco. Diana era fatta così, era in un posto e sognava di trovarsi in un altro.
     Ventitré mesi. Tanto era il tempo trascorso a Roma. Gli inizi non furono male: la sfida alla solitudine, gli svaghi di una grande città, le simpatie di un collega. Si chiamava Nello, veniva da Napoli ed era uno dei pochi maschi che lavoravano al call center dove la maggioranza della forza lavoro era rappresentata da donne in età compresa tra i venticinque e i cinquant’anni.
     Diana era una ragazza di partenze e mai di ritorni. Gli inizi le piacevano, la stimolavano. Dava tutto nelle partenze, ma poi difettava di continuità. Era così nel lavoro, in quelle poche amicizie che riuscì a instaurare a Roma e anche nei rapporti affettivi. Quel Nello lo fece diventare pazzo. Lui si innamorò di Diana, lei credette e basta di innamorarsi. Il suo affetto era debole come il sole anemico di certi giorni di novembre e scoloriva presto nella noia, sentimento che Diana proprio non sopportava.
     E allora, per cercare di restituire nuova linfa a quella storia, ecco che Diana trascinava il rapporto con Nello fin sull’orlo del precipizio, lo faceva ciondolare un po’ nel vuoto della fine e solo dopo lo riacciuffava. Era così che riusciva a sottrarlo alla noia, a riassaporare gli inizi, ad apprezzare il valore di un nuovo abbraccio.
     Poi, ecco che un giorno Nello si stancò di farsi zerbino, di quel prendi e lascia, e decise di andarsene: da Diana come dal call center, che non avrebbe potuto sopportare quel posto che parlava di quell’amore maltrattato da parte di una donna che, in fondo, pagava in età adulta la diseducazione ai sentimenti che le era stata impartita sin da piccola. All’abbandono da parte di Nello, Diana reagì con il suo solito orgoglio. All’inizio le sembrò quasi una liberazione, poi, però, capì di aver sbagliato e maledetto il suo orgoglio se mai e poi mai trovò la forza di ricercarlo, anche solo per scambiarsi due parole di chiarimento.
     Si sentì difettosa, sbagliata e quanto, in quei momenti di solitudine, le tornavano in mente certe parole di nonno Celeste lo sapeva solo lei! Quando era in testa, Celeste parlava spesso a quella sua nipote. Lo faceva per metafore “Che così capisci subito e ti restano a memoria”. Diceva sempre così.
Tanti anni prima di quei giorni romani, il nonno volle parlare alla nipote della difettosità degli uomini, del loro incancrenirsi nell’orgoglio e nel rancore. Per far meglio comprendere a Diana il significato di quello che voleva trasmetterle, Celeste attese un giorno di neve.
    Aveva appuntamento con un pastore di Pievepelago, paese alle pendici delle creste appenniniche, per vedere certe bestie da comprare, soprattutto mucche. Chiese a Diana, bimba di nove anni, se poteva venire con lui. Diana accettò subito, con gioia. Erano quasi arrivati quando a un certo punto, oltrepassata una curva, la strada scomparve improvvisamente. Una slavina staccatasi dal sovrastante pendio aveva riempito con un’enorme gobba bianca tutta la sede stradale. Nel suo rovinare a valle, la massa nevosa aveva trascinato giù alberi, sassi, erba…      A guardarlo dal basso, quel gigantesco solco scavato tra abeti e faggi pareva un trampolino verso il cielo. I due si fermarono, Diana si aspettava che il nonno si arrabbiasse per quella fermata obbligata, per tornare indietro e riprendere un’altra strada, una deviazione per Pievepelago. Invece ecco che Celeste rimase lì, scese dalla macchina e invitò Diana a fare altrettanto. Poi, fatti alcuni passi verso i cumuli della slavina ecco che il nonno parlò… “Vedi Diana, non capita solo agli uomini di baruffare”. La bimba annuì. Lo fece guardando il nonno, rimanendo in silenzio e senza capire il perché di quelle parole. Pochi secondi ed ecco che Celeste riprese a parlare.
     “Anche nel mondo naturale esistono cattiverie, violenze e dolori. La neve che tutto travolge, che sbarba da terra giovani pianticelle, colpevoli solo di essersi trovate a crescere in un luogo sfortunato. Accade così anche per gli uomini, ma essi fanno ancora peggio”
“Noi non facciamo questi disastri!” reagì con fare risentito Diana. “Hai ragione Diana, noi facciamo di peggio. Perché dopo la cattiveria o la violenza seminiamo i veleni dell’orgoglio e del rancore. E non sappiamo più liberarcene, se non con la morte. In questo, la Natura è migliore di noi, perché sa perdonare, dimenticare e ripartire. Ricordatelo questo posto, ti ho fatto scendere dalla macchina perché tu lo porti in memoria, e quando tornerai a passarci vedrai come dove adesso vedi devastazione in futuro noterai che sono cresciute nuove piante, altri fiori… Non ci sono rancori e stupido orgoglio in Natura, quelli sono difetti degli uomini. Prova, se ti riesce, ad essere migliore, a somigliare a questa neve. Se qualcuno ti fa un torto o sei tu a sbagliare, usa sempre il tempo che hai per perdonare, capire, dimenticare e ripartire. Non aspettare, perché si pensa sempre di avere tempo poi… il tempo sparisce, qualcuno se ne va e… restano solo rimpianti.”
     Diana, per anni aveva battezzato come un inutile e non richiesto sermone quel discorso del nonno e soltanto quando si ritrovò sola in quella sconosciuta e straniera periferia di Roma capì quanto difettosa fosse la sua vita. E quanto i problemi di lavoro la rendessero ancora peggiore.
Con il passare dei giorni, la vita al call center diventava sempre più un inferno. Nuovi e più arroganti manager e dirigenti sostituirono i precedenti, che parevano già squali quelli! Il clima lavorativo era alienante, Diana non capiva se era più oggetto lei degli oggetti che usava.
Il direttore del call center stilò un nuovo, rigido, codice comportamentale pieno di obblighi, doveri e sanzioni. Qualcuno interpellò i sindacati di categoria, ma i rappresentanti erano troppo conniventi e presi dal far carriera a leccare il culo ai capi di quel gestore telefonico per difendere quelle poche sciagurate di centraliniste. Erano operaie senza voce, che le parole dovevano servire solo per essere cortesi al telefono, anche con bambini che volevano fare scherzi, con maniaci sessuali che si masturbavano al telefono, con psichiatrici che urlavano di schizofrenia o cercavano solo una voce amica che raccogliesse le loro paure, con sconosciuti che dipendevano dal cellulare come il drogato dall’eroina e che pretendevano immediate risposte e soluzioni per qualsiasi problema.
     Un giorno, Diana e una sua collega decisero di raccogliere prove delle vessazioni cui erano sottoposte al call center. Acquistarono una microcamera per fare delle riprese e filmarono un intero turno di lavoro. Pensavano di andare poi a qualche trasmissione televisiva tipo “Le iene” o “Striscia la notizia” per fare denuncia di cosa volesse dire lavorare nel duemila quattordici in certi posti dove i dipendenti non hanno voce su niente.
     Una dipendente, centralinista di mestiere, ruffiana di vocazione, vide Diana e quella sua amica collega fare le riprese e non mancò di informare i manager. Il processo di Norimberga sembrò niente in confronto a quello che mise alla sbarra le due spione e consegnò alla ruffiana le stigmate di capoturno.
     Diana venne sospesa per un mese, la sua amica per due. Per entrambe scattò la sanzione economica con detrazione del quaranta per cento dello stipendio per un periodo di sei mesi. In pratica, quando sarebbero rientrate al call center, seppur adempiendo al loro debito orario di centonovanta e passa ore mensili, le due condannate avrebbero riscosso circa quattrocento euro al mese. Che ci fai, a Roma, con una simile miseria se solo per affitto e spese per mangiare e luce ti partivano settecento euro mensili?
     In quei giorni di buia disperazione Diana pensò più volte di tornare a podere. Fu il solito maledetto orgoglio a fermarla. Mai e poi mai avrebbe voluto vedere suo padre schernirla, ridicolizzarla per essere tornata, sconfitta e a testa bassa, all’ovile.
Rimase a Roma. Senza stipendio perse la casa in affitto. Un paio di sere si mise a camminare sui marciapiedi di una periferia di Roma abitata da puttane e magnaccia. Si atteggiava a prostituta.
Gli uomini in cerca di sesso facile riconoscevano in lei un certo imbarazzo, capirono che era una novizia da approfittarsene subito, che prima la scopavano e più si sarebbero divertiti. Si fermò un tipo che guidava un macchinone grigio. Abbassò il finestrino. Lei ci guardò dentro. Ma poi, imbarazzata e inadeguata, scappò via. Camminò per ore. Freddo dentro e fuori. Si ritrovò in un vicolo pieno di donne e uomini neri come e più di quella notte. Erano senegalesi e di quei loro corpi poteva vedere solo le bianche dentature che danzavano, quasi beffeggianti, a mezz’aria.Si imbrancò con loro, la chiamavano la “ Donna Tubab” che nel linguaggio dei vù cumprà del Senegal significava la femmina bianca.
     Le dettero da mangiare, altri vestiti e un angolino dove dormire. Si sentì accolta, quasi partecipe di una piccola comunità ai margini della città dove uomini e donne sapevano stare assieme, raccontarsi, confidarsi gli accadimenti del giorno trascorso a pulire parabrezza delle auto ferme a un semaforo oppure a vendere cianfrusaglie per strada. Vivevano in un modo comunitario, parlavano ed ascoltavano: era in quel posto che le parole si riprendevano un valore e durante i dialoghi non vi era una di esse che restava inascoltata, bambina orfana che nessun orecchio si degnava poi di raccogliere, di adottare come, speso, accadeva nel parlare tra italiani.
    Per taluni aspetti, la comunità dei senegalesi somigliava alla grande cucina del podere Bellandi, laddove tre generazioni aspettavano le ore della cena e quelle successive attorno al fuoco per raccontarsi. Fu in quei giorni che Diana capì che per andare avanti doveva tornare indietro, il che non voleva dire rincasare in Emilia ma cercare di migliorare la sua situazione lavorativa e quella delle sue colleghe del call center.
    I capi del gestore telefonico la richiamarono per un colloquio. Non avevano un tono amichevole, ma quello non l’avevano mai avuto. A non essere più la donna sottomessa era Diana: se prima tollerava, abbassava la testa, si faceva ricattare, contraccambiava la sua esistenza per una somma ridicola, adesso non sopportava più niente di quella vita: li mandò a fanculo.
     Ciò nonostante pensò che fosse stato giusto fare qualcosa per aiutare quei dannati del call center. Si ricordò di madri che lasciavano figli sparsi qua e là, in preda alla playstation oppure in balia di donne affittate come balie di giorno e prostitute di notte, le tornarono in mente le difficoltà di chi non aveva tempo per farsi la spesa, di chi tornava a casa con il mal di testa e il vomito, di chi, come lei, si chiudeva in casa, luci spente, intollerante ad ogni voce e rumore.
Qualcuno, quando ancora andava a scuola, le aveva parlato di Stato sociale, di Welfare. Parole in bocca a una sinistra che di sinistra non aveva più niente se poi vedeva e taceva davanti a realtà come quelle dei call center. La vera sconfitta della Sinistra è quella di aver prodotta centinaia di intellettuali ma di aver perso di vista la rabbia e i problemi della gente. Si, la rabbia: vero motore di ogni rinascita.
     Diana non rimise mai più piede al call center. Fondò, aiutata dai senegalesi, una Comune. Una di quelle associazioni che andavano di moda negli anni settanta, dove ribellione, rabbia, coscienza ecologica e solidarietà una volta mescolate tra loro davano vita a un’espressione comunitaria ad oggi dimenticata.
     Adesso, Diana Bellandi gestisce un grande orto condiviso, vende su internet le cianfrusaglie africane e parte dei prodotti dell’orto ai mercati romani, vive in una stanza di una casa che ospita i dannati del call center, fa da balia ai figli di madri lavoratrici del call center. Ed è felice così.

     Poi, sa già che un giorno dovrà tornare al podere. Che la neve, per voce del nonno Celeste, così le aveva insegnato. Ed è bene che se lo ricordi, che vada, che usi il tempo per perdonare, capire. Che poi il tempo sparisce. E restano solo rimpianti. 
(Federico Pagliai)

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