lunedì 4 maggio 2015

"ISTANTANEE" di Maurizio de Giovanni (frammento)

Questo è solo un frammento di un bellissimo racconto di Maurizio de Giovanni: potrete leggerlo tutto intero acquistando l'antologia "Nessuno ci ridurrà al silenzio" ed. Cento Autori

Istantanee.
Mi rimane questo, di noi. Di lei. Di tutti. Fotogrammi, sbiaditi e sovraesposti, tanti colori sbagliati e immagini sparse.
Come quelle fotografie conservate alla rinfusa in una di quelle scatole di metallo da biscotti, che pensiamo prima o poi di ordinare in un album e che alla fine preferiamo conservare così, perché non ne ricordiamo la successione o perché non ne abbiamo il tempo; o solo perché alcune di esse sono di una bellezza troppo dolorosa. E ci costerebbe troppo metterci a osservarle di nuovo. A ricordare ancora.
Istantanee.
Che vengono fuori dal cuore all’improvviso, in un sorriso o in un suono, nelle note di una canzone o nella sospensione di un giudizio. Ricordi di un futuro che non ci sarà, l’acuta mancanza dei sogni che non hanno più ragione di esistere, e che a tradimento arrivano di notte e ti fanno ritrovare, la mattina, col cuscino bagnato di malinconia.
Lei che sorride, ragazzina, dal balcone. Il sole dietro, basso, che mi fa strizzare gli occhi e che incornicia i capelli biondi. Ha un vestitino a fiori, le braccia scoperte. E’ bellissima, anche in controluce. Dietro di lei la sagoma grigia della fabbrica, come un monumento alla follia: la fabbrica che dà da mangiare a mezza città. La fabbrica, che ha ucciso quella e l’altra metà; ma allora non lo sapevamo.
Io ero pazzo di lei. Lo fui da quando riesco a ricordare, bambini tutti e due, io un anno in più: e lei era bellissima. Non ho mai conosciuto una bella come lei; era una questione di aria, che attorno a lei diventava musica e profumo. Una di quelle persone che accendono la luce quando arrivano e la spengono quando se ne vanno, lasciando un senso di vuoto insostenibile.
Lo stesso che provo adesso, rivedendo dietro le palpebre chiuse le istantanee di una vita. Di tante vite, anzi.
Io, seduto sulla poltrona del salotto, con un libro in mano. Quanti anni ho? Undici, dodici? Un bambino grasso e triste, a rivedermi ora. Che non sapeva giocare a pallone nei prati polverosi pieni di gobbe e buche, con l’erba che cresceva a chiazze già morte, che finivano con le reti metalliche e le alte mura della fabbrica. Chissà quanti anni di esistenza mi ha fatto guadagnare inconsapevolmente, non saper giocare a pallone.
In quegli anni però avrei dato un braccio per potermi esibire davanti a lei, per poter godere dei suoi occhi ammirati. Io leggevo. Stavo da solo, e leggevo. Mio padre e mia madre erano due operai ignoranti, e se si trattava di libri i soldi c’erano sempre: mi dicevano che io, almeno io, in fabbrica non avrei dovuto andarci. Che dovevo fare il dottore, io; o il professore di scuola, o l’avvocato. Pensavano alla fatica, ai turni di notte, alla sveglia che suonava mezz’ora prima della sirena che scandiva la vita di tutti: non sapevano che era dall’orribile morte che fecero tutti e due, che mi volevano preservare.
Lui invece a pallone ci giocava. Era pure bravissimo. Io naturalmente lo odiavo, sempre pieno di amici e di donne e di votacci in tutte le materie, e per questo amato e seguito da tutti e da tutte. E da lei.
Nell’istantanea della mia mente è in piedi, il pallone sotto al braccio, la faccia sporca con gli occhi azzurri, ridenti, che luccicano nel sole. Alto, muscoloso, snello. Ci morivano dietro tutte, e pure lei.
Devo essere sincero, era simpatico. Un paio di volte è pure intervenuto per salvarmi, quando gli altri si mettevano a prendermi in giro e a tirare schiaffoni che volevano essere scherzosi ma che facevano male, fuori e dentro. Lui schioccava le dita, e tutti se ne andavano come cani bastonati.
Lo faceva perché io ero il vicino di casa di lei, naturalmente. E perché per gratitudine gli passavo qualche compito, era in classe con me, io il primo e lui l’ultimo, ma a chi importava? A qualcuno degli stanchi professori, forse: avviliti dal fatto che a fine corso i loro ragazzi, bravi o non bravi, si mettevano in fila per entrare a far parte della catena di montaggio o delle squadre di gestione dei forni, o di quelli che caricavano il materiale nei containers in partenza nelle albe gelide dal porto. O ai miei, perduti dietro il sogno per me di un futuro lontano dallo squallore dell’abbrutente fatica che non lasciava nemmeno la voglia di fare l’amore.

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