lunedì 27 aprile 2015

Un racconto di Anna Maria Virgili, presidente del Comitato Esposti Amianto Lazio.

MIO PADRE COIBENTISTA 
Lavoravi l'amianto a mani nude 
tornavi la sera 
polvere nei capelli 
mi accarezzavi bambina 
le mani bollose 
respiravo il tuo affetto
e le fibre assassine 
ci univano nella sorte maligna. 
Tu forte e onesto 
spezzato da un lavoro malsano 
piegato al profitto di pochi. 
Cercavi uno spiraglio di quiete
nell'attesa della calma infinita. 
Mute parole in bilico 
tra pianto e silenzio, 
i tuoi occhi, i miei, 
sibilo, fame d'aria, 
sguardo assente 
cuore-polmone 
poi più nulla... 

IL MALE DENTRO 
Mio padre Vittorio ha lavorato come coibentista per la Capamianto Spa dal ’36 al ’62. Poi fino al ’66 con la ditta Dufour & Piacenza (Dufour, cugini di quelli che facevano le caramelle) e in seguito con la ditta Salvi.
Ha rivestito con l’amianto caldaie, tubi, celle frigorifere, motori, paratie, condutture, turbine. In ambienti di lavoro notevolmente polverosi, dove non c’erano aspiratori, senza uso di mascherine. Spesso al chiuso, in locali angusti e mal areati, in posizioni particolarmente scomode. I materiali usati (pannelli, trecce, coppelle, cartoni, materassini) oltre alla polvere grezza, erano tutti a base di amianto. 
Lavorava la polvere di amianto allo stato grezzo e la impastava con il cemento per riempire le parti scoperte dei rivestimenti. Tracciava anche tessuti e cartoni in amianto che, sagomati e tagliati, servivano per coibentare strutture diverse. Ho visto le sue mani piene di piaghe, bolle e ferite. La sera tornava a casa con le mani fasciate e il giorno dopo doveva tornare al lavoro. La polverosità negli ambienti di lavoro era assai elevata così lui e i suoi compagni si coprivano naso e bocca con un fazzoletto come fossero banditi pronti a compiere una rapina, loro che sono stati i martiri del lavoro. 
Erano gli anni a cavallo tra il ’50 e il ’60. Si guardava alla capacità di lavoro piuttosto che alla lotta contro la nocività del lavoro, per nulla all’integrità della salute degli operai che per un salario da sopravvivenza lavoravano amianto. Le fibrille che respiravano si conficcavano nei polmoni e più ne respiravi, più si estendeva l’asbestosi. I polmoni cicatrizzati sempre più piccoli. Fibrosi interstiziale acuta. Enfisema. Tosse. Dispnea. Astenia. Arrivava la malattia e non si sapeva perché. Si sospettava che quella polvere potesse far male. Forse faceva morire? 
“Ti ù sè… l’è mortu ù Ciuìn” - avevo sentito dire da mio cugino Loris, una sera che era venuto a trovare papà. Il loro compagno di lavoro era caduto a terra all’improvviso, scendendo dal tram. Solo dopo l’autopsia scoprirono che aveva l’asbestosi. Si acquisiva così, attraverso i decessi dei compagni di lavoro, la consapevolezza della pericolosità dell’amianto. 
Papà, suo fratello Rino e mio cugino Lòris, figlio di un altro fratello, facevano i coibentisti, lo stesso mestiere di Ciuìn, nei cantieri navali di Genova. Rino e Lòris sono morti per il mesotelioma ai polmoni e papà per l’asbestosi. Nessun coibentista della Capamianto Spa si è salvato. Negli anni ’60 un gruppo di ricercatori dell’Ospedale San Martino di Genova (Fontana e altri) iniziò i primi studi sui “coibentisti”, i più esposti alla polvere di amianto che non faceva solo tossire e sputare l’anima, faceva morire. Quei medici hanno avuto in cura papà per tanto tempo. Dicevano che era pieno di amianto dalla testa ai piedi. Diagnosi: “Asbestosi polmonare complicata da enfisema bolloso e conseguente grave insufficienza respiratoria”. 
Mio padre faceva quasi sempre il cottimo e spesso veniva mandato in trasferta. Là in quei cantieri, in quelle aree industriali ancora da bonificare, dove ancora ci si ammala. Là dove c’erano centrali elettriche, cantieri navali, siti industriali, a Genova, La Spezia, Taranto, Monfalcone, Trieste, Livorno, Massa Carrara, Civitavecchia, Napoli-Bagnoli, Palermo, Turbigo, Spinetta Marengo, Riva Trigoso, Chivasso e tanti, tanti altri luoghi che la memoria ha dimenticato ma che riaffiorano ogni qualvolta viene menzionato un sito contaminato da amianto. In tutti quei luoghi di dolore legati alla presenza di amianto, mio padre c’è stato. 
Mia madre spesso lo seguiva e anch’io quando ero bambina o durante i periodi di vacanza scolastica. Durante i lavori per la costruzione delle navi gemelle Raffaello e Michelangelo, nei cantieri navali di Genova e poi di Trieste ebbe le crisi peggiori. Faceva sempre più fatica a respirare, non riusciva a stare in piedi e da allora fu un alternarsi tra ricoveri in ospedale e rientro al lavoro. Dopo un lungo iter fu riconosciuta dall’Inail la malattia professionale al 100%. Ma fu una via crucis, ci vollero anni. Ricordo le mattine quando si alzava all’alba, tossendo e scatarrando, con quel sibilo terribile che è la mancanza di aria nei polmoni. Dispnea, che in greco, vuol dire fame d’aria. Usciva col freddo. Non aveva la macchina, prendeva il tram. E aveva la febbre. 
La mutua copriva solo alcuni periodi di malattia e doveva rientrare al lavoro anche se stava molto male. La Capamianto Spa (Cape Asbestos Company,Ltd) era una multinazionale con sede legale a Londra, aveva fabbriche di amianto in Gran Bretagna, Spagna, Canada e miniere in SudAfrica. Fin dal 1893 la Cape Asbestos Company Ltd iniziò a sfruttare i giacimenti di crocidolite, la varietà più pericolosa dell’amianto, nei pressi di Prieska, al nord della Provincia del Capo (da cui ha preso il nome). L’amianto blu fu utilizzato massicciamente nell’industria navale ed in particolare, come riporta un listino del 1912 della stessa Capamianto Spa di Torino, dalle “Marine da Guerra e Mercantili dei principali Stati tra i quali primeggia la R. Marina Italiana”. Questa società ha estratto e lavorato amianto in Sud Africa per più di un secolo. Ha operato sotto il regime dell'apartheid sfruttando le maestranze a basso costo, tra cui donne e bambini. Fino al 1948 Cape PLC (“The Cape Asbestos Company Ltd”) ha estratto direttamente crocidolite e amosite nelle miniere di Prieska e Penge nel Northern Cape in Sud Africa e dal 1979 ha operato attraverso società interamente controllate. 
Non solo i minatori, ma anche coloro che vivevano attorno alle miniere, sono stati esposti ad elevatissimi livelli di amianto, a volte trenta volte il limite legale previsto in Gran Bretagna. Un medico di Prieska ha relazionato di aver diagnosticato 900 casi di mesotelioma, incluso il proprio figlio. Un ispettore della salute del governo britannico, il dottor Gerritt Schepers, ha riferito che “i bambini calpestavano l’ amosite che cadeva tutto il giorno a cascata sullo loro teste”. E che quei “bambini hanno avuto il massimo di esposizione all'amianto. L’esame ai raggi X ha rivelato asbestosi con cuore polmonare prima dei 12 anni ". In Italia la Capamianto Spa aveva una fabbrica di amianto a Torino e sedi nei cantieri navali di Taranto, La Spezia e Genova. E’ stato accertato che in tutti gli stabilimenti della società, gli operai lavoravano in condizioni di elevatissima esposizione all'amianto. L'incidenza delle malattie legate all'amianto (tra cui molte vittime la cui esposizione era puramente ambientale) è stata altissima con intere famiglie colpite dalla tragedia. Nel 1968 chiuse la principale fabbrica britannica a Barking, data l’alta incidenza di malattie da amianto, mentre l’attività di estrazione è andata avanti fino al 1979. Nel ’75 la Capamianto Spa in Italia dichiarò fallimento e anche questo fu un modo per evitare la richiesta di risarcimento da parte di milioni di famiglie di operai che si sono ammalati e sono morti. Purtroppo il lungo periodo di latenza delle malattie da asbesto non ha facilitato l’esercizio della giustizia che, se mai può ripagare stragi di tale portata, almeno allevia la tensione che sempre resta presente nell’anima di chi ha subìto un male che si poteva evitare. Nel 2006 la Cape ha creato un fondo amianto per risarcire i residenti del Regno Unito e solo in parte i minatori del SudAfrica che hanno presentato settemiladuecento domande. Perché la Cape PLC non ha istituito un fondo anche per risarcire le vittime italiane? E che cosa hanno fatto i governi per rendere questo possibile? La Cape PLC ("The Cape Asbestos Company Ltd", in Italia “Capamianto Spa”) è una multinazionale tuttora molto attiva nel campo dei rivestimenti, coibentazioni, verniciature, settore del gas, petrolchimico e nucleare, in Gran Bretagna, Europa, Asia, Africa, Medio-Oriente, Australia…..e in paesi dove l’amianto non è ancora stato vietato. In Gran Bretagna la Cape PLC è denominata "industrial killing machine”. Di quante vittime è responsabile questa multinazionale? Quanti familiari non hanno neppure potuto intentare un processo? Purtroppo, non è stato possibile alla mia famiglia e agli altri familiari dei lavoratori come lui, intentare una causa per il risarcimento del danno alla Società Capamianto perché i responsabili dell'azienda, compresi gli amministratori inglesi subentrati a meta' degli anni '60, risultavano ormai deceduti. Per quanto a mia conoscenza, nessun lavoratore italiano alle dipendenze della Capamianto Spa ha mai ottenuto un risarcimento del danno. Quando ero bambina, tornava dal cantiere, si chinava su di me, mi prendeva in braccio e mi faceva volare in aria più volte: “la mia buciacchin!” diceva - e io mi divertivo e tremavo per l’emozione. 
Mia madre ed io oggi abbiamo scoperto di avere entrambe le placche e gli ispessimenti pleurici per esposizione familiare all’amianto. Allora non sapevamo che i tanti momenti di affettuosità vissuti con mio padre sarebbero stati anche per noi causa di malattia che, sebbene di natura benigna è pur sempre un processo in evoluzione, sentinella di ben più gravi patologie. Una volta (avrò avuto dieci anni) chiesi a papà: “Cos’è l’amianto? Come è fatto?”. Alcun giorni dopo si presentò a casa con un pacco che posò sul tavolo della cucina. Tolse lo spago e cominciò ad aprirlo piano piano. C’erano vari pezzi di materiale che dispose in fila davanti ai miei occhi. “Ecco, questo è amianto!” mi disse. E aggiunse che l’aveva preso eccezionalmente in prestito dal magazzino. Poi iniziò a indicarmene i nomi. C’erano piccoli pezzi di crocidolite, il crisotilo e l’amosite, alcuni campioni di cartone e di corda, un pezzetto di tela grigiastra che sembrava sfaldarsi e alcuni minerali di diverso colore. Ne ero affascinata e pensai che mio padre facesse un lavoro davvero interessante. Feci l’atto di pendere in mano quello che mi sembrava il più bello, l’amianto blu e lui mi fermò di scatto: “Puoi guardare, ma questo qui non lo devi toccare!”. Così rimasi a guardare estasiata quel campionario di morte, a pochi centimetri dal naso. Poi papà raccolse quei pezzi uno ad uno, li ripose nella carta da pacchi e richiuse tutto con lo spago. Sul tavolo rimase della polvere che io mi premurai di pulire con lo straccetto di cucina. Ricordo quando un giorno arrivò a casa con il lavoro da fare… Erano materiali in amianto, cartoni pressati piuttosto spessi che dispose sul tavolo della cucina per essere tracciati e che doveva preparare per il mattino seguente. Li studiò a lungo, poi li tagliò in varie forme per essere sagomati. Quei pezzi si sfaldavano facilmente appena li muovevi e papà faceva molta attenzione nel maneggiarli. Le fibre che rilasciavano erano moltissime, chiaramente visibili sul tavolo e per terra. La cosa si ripetè per diverse settimane, poi non più. Qualche volta, con mia madre andavamo al cantiere “a prendere papà”. Ci si affacciava in un enorme magazzino e a fatica si riusciva a vedere in fondo. La polvere c’era e dava fastidio ma era considerata polvere e basta. 
Quella polvere bianca lo ricopriva completamente, dai capelli alle scarpe e il blu della tuta non si vedeva più, tanto che mia madre, che sapeva cucire, gliene aveva fatta una color cachi per non far notare la differenza. Mi chiedo quante tute avrà sbattuto, lavato e sciacquato mia madre. E quanta polvere abbiamo respirato tutti noi che vivevamo in una piccola casa dove la vita familiare era concentrata prevalentemente in cucina, unica stanza di casa riscaldata dalla stufa “economica” che andava a legna e più spesso a carbone. Vivevamo nelle case popolari di Molassana, un quartiere periferico della Val Bisagno, a Genova. Le case erano veri e propri casermoni quadrati dall’aspetto ordinario fatti costruire negli anni del primo dopoguerra. La casa era piccola e la cucina era il centro della vita familiare, essenziale ma molto luminosa. 
C’era un grande acquaio di marmo di Carrara di cui mia madre andava fiera ed era di marmo anche il piano del tavolo che stava al centro. In quella cucina, il sabato o la domenica si faceva il bagno. Mamma metteva a bollire un pentolone di acqua e la versava bollente in una grande tinozza di zinco che piazzava nel bel mezzo della stanza, dopo aver spostato il tavolo per fare spazio. Il vapore che si alzava ricopriva ogni cosa e non ci si vedeva più a pochi metri. Ma non c’era solo il vapore, c’era anche la polvere dell’amianto. Mamma abitualmente aiutava papà a lavargli la schiena. - Aveva le spine nella schiena, tuo padre, sai? Non aveva la schiena liscia, si sentivano come delle spine…le sentivo con le mani quando lo insaponavo . - Le spine? - - Sì, …forse perché usavano anche la lana di vetro oltre all’amianto… - Ma non si lavavano al cantiere? – - Ma no! Quando tornava era sempre pieno di polvere…ne aveva così tanta sulla tuta, sulle scarpe, nei capelli, perfino sulle ciglia e sui baffi… Era così stanco…tossiva e tirava sempre su a cercare l’aria, così lo aiutavo a spogliarsi in cucina… - Mamma, lavavi lui e tutto quello che aveva addosso!...- - Eh, sì! La tuta la buttavo a lavare nell’acquaio o la mettevo a bagno nel secchio, ma prima la sbattevo e c’era così tanta polvere in cucina che non si vedeva da qui a lì! - Non è stato facile neanche per te…- - Eh, so io quanto ho lavato…perfino di notte! La polvere usciva fuori dai calzini, dalle maglie, dalle mutande.… - - Non avete mai pensato, insieme, di cambiare vita? - Oh, sììì… se avesse fatto tredici al Totocalcio… sìììì !!! Ci giocava sempre …- - Ma no, intendo andare in un altro posto, fare altro - - Ma che dici? Era già tanto così! Ma che potevi fare? Credi che si potesse scegliere? Avevamo solo un pezzo di casa popolare in affitto… E papà era coibentista, uno con un mestiere! Certo, se penso ora a quanta polvere abbiamo respirato tutti… e a quanto ho lavato…. Ah, ne ho lavate di tute ma anche le federe, sempre a lavare federe a mano perché non c’era mica la lavatrice… - Le federe?... - - Sì, le lenzuola una volta a settimana, ma le federe le lavavo più spesso, come le tute, perché erano sempre piene di polvere, ci trovavo la polvere sopra tutte le mattine e c’era l’alone... sulla polvere ci si dormiva, alla fine! – Sono passati trentatré anni da quando mio padre se n’è andato per l’asbestosi. 
E’ molto presente nei miei pensieri per l’affetto che ci legava ma ancor più per la sofferenza di quella malattia e della sua storia legata all’amianto. Negli ultimi anni Vittorio passava la maggior parte della giornata a letto: bombola dell’ossigeno, pila di libri, giornali, radio, il catino in terra per i fazzoletti sporchi. Febbricola, tosse stizzosa, sibilo, crisi asfittiche, dispnee parossistiche. Fatica a stare in piedi, a camminare, sempre peggio. Devi stare attaccato all’ossigeno. Non c’era cura. I medici avevano previsto la fine imminente - “Sei mesi…” – avevano detto. Previsione che fu inspiegabilmente rimossa da me e da mia madre. Una frase tornata alla mente solo quando non sarebbe più stato necessario tenere il conto dei giorni per preoccuparci o per essere più presenti e affettuose o forse per vivere quotidianamente un maggiore sgomento, il senso dell’impotenza, l’attesa peggiore. Tante volte aveva implorato la fine di quella sofferenza, una richiesta di pietà rivolta al padreterno, alla madre Maria, a quella piccola, forte e pia donna di campagna che lo aveva partorito, vedi destino, in una stalla, tutta sola. L’andirivieni dall’ospedale degli ultimi anni, nonostante l’affanno per respirare, la sofferenza che lo accompagnava sempre e la debolezza fisica, che aveva piegato la sua forza innata, erano diventate una consuetudine che dava l’illusione di poter andare avanti così, per chissà quanto tempo ancora. La sua malattia è stata lunga. 
Lungo il periodo di latenza, lungo il processo di evoluzione di quel male dentro. L’amianto lo aveva respirato, mangiato, ne era intriso. Aveva le mani grandi, forti e nodose. Le unghie larghe e ricurve (lo chiamano ippocratismo) denunciavano l’intossicazione cronica. Quello che colpiva era la ridotta capacità respiratoria che lo costringeva a dipendere sempre dall’ossigeno. Mi tradiscono gli occhi che diventano rossi ma trattengono le lacrime. Mi ritornano alla mente le ultime parole dette da mio padre, quando non sapevo che sarebbe stato un addio: “Non piangere, ochi beli!”. Parole dette piano, in quel suo accento ferrarese, lo sguardo buono, rassegnato, i suoi occhi semichiusi e l’accenno appena di un sorriso. Parole sussurrate con affetto e la richiesta di un bacio in quella sua guancia scavata. Era già nella fase cuore-polmone e il suo respiro era un sibilo che feriva. 
Non dimenticherò mai quel momento. La storia dell’amianto è emblematica e co-significativa di una condizione sociale. E’ scritta sui corpi malati di una classe sfruttata. Una storia che non è finita, continua in forme e con nomi diversi ed è sempre la stessa. Abbiamo visto e provato, da figli, quella sofferenza e quel male dell’anima così profondo, quel male dentro, indelebile. Non perdoneremo il male che è stato fatto ai nostri genitori, fratelli, cugini, zii, amici e compagni dei nostri cari e lotteremo per questo finché avremo forza e voce. 
Oltre all’esperienza della malattia vissuta da milioni di lavoratori, alla sofferenza delle famiglie, la profonda e devastante giustizia negata non ha aiutato ad elaborare quel lutto personale e sociale che resta dentro al cuore dei singoli e della società stessa. Il senso dell’impotenza, della mancata riparazione del danno, dell’omertà che tuttora perdura attorno alla questione dell’amianto (e di altri agenti tossici) sono il segno emblematico di una “malattia di sistema”, il male tossico che avvelena un’intera comunità.

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